Palmiro Togliatti, ritratto di un leader mefistofelico. Proprio così: l'aggettivo che il figlio di Luigi Longo, Gino, nelle sue inedite memorie-fiume di cui ci stiamo occupando in questa serie di articoli, sceglie per qualificare il Migliore, è proprio questo: «mefistofelico». Gino Longo, classe 1923, visse, da «figlio dell'Internazionale», in Unione Sovietica, prima dal 1932 al '38, e poi dal 1941 alla fine della guerra. In quegli anni, ebbe modo di conoscere bene il capo del Pci, il quale nel 1935 divenne il numero due del Comintern.
Di Togliatti sono stati documentati, con dovizia di dettagli, vizi e segreti, crimini e misfatti. Da grande cinico, riuscì a scampare alle purghe staliniane che insanguinarono la Russia, dalla metà degli anni Trenta. Gli si è attribuito il merito storico di aver saputo, astutamente, piegare il capo di fronte a Stalin, mettendo così in salvo il gruppo dirigente del suo partito. Vero. C'è però il rovescio della medaglia: per ottenere ciò, il compagno Ercoli ratificò la decimazione, tra gli altri, dei vertici dei partiti comunisti polacco e jugoslavo. Senza considerare il fatto che il terrore rosso, se da un lato risparmiò i dirigenti del Pci, dall'altro si accanì sui quadri intermedi e sui semplici militanti del comunismo italiano emigrati in Russia, 200 dei quali svanirono nel nulla.
Gino Longo ci delinea uno straordinario ritratto umano di Togliatti, colto nella sua più intima essenza di animale politico allo stato puro. Il figlio di Luigi Longo conobbe il Migliore, nel 1930, in Francia, quando i comunisti italiani vivevano ancora nella rigidità delle loro regole cospirative: e cioè, nascondendosi dietro identità personali e familiari fittizie, nella totale illegalità. «Piccoletto, con la testa un po' infossata, abbastanza malvestito, aveva un ciuffo di capelli ribelli e piccoli occhi vivacissimi dietro occhiali allora di filo metallico», ricorda. «Ercoli era sempre allegro, e aveva sul viso il suo tipico sghignazzo. Caustico, ma non velenoso, rideva spesso e volentieri, e le sue risate erano contagiose».
Gino Longo insiste nella rappresentazione del gruppo dirigente del Pci come una comunità di gente allegra e ridanciana. Ha impressa nella memoria la risata «squillante e cristallina» in cui Togliatti esplose quando, un decennio più tardi, a Mosca, gli raccontò la tecnica che aveva escogitato per far durare più a lungo l'affissione dei volantini clandestini del partito, nella Parigi occupata dai nazisti: appendere i papillons nei vespasiani.
Longo figlio racconta Togliatti da «innamorato tradito». Il leader, infatti, era il beniamino della prole dei suoi compagni comunisti, da cui si lasciava accostare con la massima naturalezza. Possedeva insomma l'arte di aprirsi confidenzialmente ai bambini, i soli di cui si fidava, per la loro innocenza. Con loro discorreva e scherzava, si interessava ai loro studi, insomma era il vero «pedagogo del partito». Solo che questa familiarità, s'interrompeva, bruscamente, dopo l'infanzia. Ragiona infatti Gino Longo: «Tutti noi che l'abbiamo conosciuto da bambini o ragazzi abbiamo avuto nei suoi confronti un atteggiamento un po' da innamorati delusi: è che per ognuno di noi veniva il momento in cui egli ci avrebbe svezzati, ci avrebbe tagliato di colpo, da un giorno all'altro, fuori della sua intimità, della sua confidenza, della sua fiducia, precludendoci freddamente qualsiasi ulteriore possibilità di dialogo, a cui invece noi tenevamo moltissimo. Perché il dialogo con Togliatti non era cosa da poco: ti stimolava, ti istruiva, ti spingeva avanti, ti faceva sentire qualcuno, e poi ti indirizzava e ti plasmava. La sua autorità spirituale e morale su di noi era assoluta».
Questa sua leadership, il capo del comunismo italiano sapeva esercitarla in modo implacabile. Sferzando con il suo micidiale sarcasmo chi aveva sbagliato. Ne avevano avuto esperienza diretta suo cognato, Mario Montagnana, e Giuseppe Berti, mandato dal Comintern a Parigi, nel 1937, come «inquisitore» del Centro estero del Pci che appariva affetto da una carenza di vigilanza rivoluzionaria. In seguito, anche Pietro Secchia avrebbe conosciuto il pugno di ferro, in guanto di velluto, di Togliatti.
Interessante anche la disamina dell'assenza di veri rapporti umani che vigeva nella comunità dei dirigenti comunisti: tutti temevano Togliatti, ma nessuno lo amava veramente. E ciascuno diffidava di tutti gli altri. Non v'è dubbio, racconta ancora il figlio di Longo, che il capo supremo «non avesse simpatia per Secchia, avesse ben scarsa opinione di Montagnana, Dozza o Pajetta, non amasse Scoccimarro e non si fosse mai fidato di Berti. Con mio padre si stimavano, ma non si amavano, non credo si fidassero troppo l'uno dell'altro e non vi fu mai tra loro il minimo cenno di un'intesa sul piano umano».
Il primo incarico politico di rilievo, da parte del Pci, Gino Longo lo ricevette nel febbraio del 1941, quando giunse nell'Urss, dopo essere stato espulso dalla Francia, con un messaggio del Centro estero del partito per Togliatti. Una vera e propria relazione orale, ascoltata a Parigi da Celeste Negarville e mandata a memoria (regola cospirativa essenziale, era di non lasciar nulla di scritto). Così ricorda l'incontro col Migliore: «Il nostro colloquio durò un'ora abbondante, ed Ercoli riempì, con la sua caratteristica grafia minuta, almeno una ventina, se non più, di quelle sue cartelle lunghe e strette, da blocco stenografico, che prediligeva».
Dopo lo scioglimento del Comintern, nel 1943, Gino Longo avrebbe seguito corsi integrativi di storia e cultura nazionale, per gli ex allievi italiani della scuola dell'Internazionale, tenuti dallo stesso Togliatti e da Ruggero Grieco, altro pezzo da novanta del Pci in versione staliniana. E lì ebbe modo di apprezzare la chiarezza espositiva del Palmiro docente.
Le ultime pennellate dell'affresco del Migliore, concernono un episodio della vita avventurosa di questo «figlio del partito». Nel novembre del 1941, il diciottenne Gino lascia il convitto del Soccorso Rosso in cui risiede, a Ivánovo, 290 chilometri a nordovest di Mosca. È una vera e propria fuga, in quanto il giovane Longo è insofferente alle regole coercitive che vi vigono. Mesi più tardi, l'insubordinato va a «costituirsi» dal leader del suo partito, che così accoglie il figliuol prodigo: «Col solito sorrisetto tra mefistofelico e ghignante, trasse dallo stipo a destra della sua scrivania due piccoli bicchieri a coste, di quelli da vodka, e una bottiglia di vino violaceo. Era una prelibatezza, quel vino bashkiro di ribes nero». Ercoli riempì il bicchierino e lo porse a Longo. Gli suggerì poi come vergare il suo atto scritto di contrizione: «Sii laconico, e cerca di far parlare i fatti. Se credi di avere giustificazioni, riportale: anche le motivazioni possono avere la loro importanza. Ma non muovere accuse, anche se pensi di averne diritto: è di pessimo gusto.
Se credi di poter trarre conclusioni, o di avere critiche da fare a te stesso, esponile: serviranno a valutare la tua personalità e il tuo comportamento. Insomma, voglio la tua versione dei fatti, ma il più possibile ponderata e obiettiva». Era una magistrale lezione di togliattismo.(2.Continua)
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