La sinistra evoca patti segreti per sminuire il blitz di Giorgia

Tajani indignato per le illazioni: "Nessun baratto con l'Egitto, siamo persone serie". I veleni di Conte e Schlein

La sinistra evoca patti segreti per sminuire il blitz di Giorgia
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«Baratto». Il termine, pregno di significati riprovevoli, è stato usato più volte nelle ultime 24 ore per gettare il sospetto di oscuri do ut des sul successo diplomatico della liberazione del giovane egiziano Patrick Zaki.

«La gioia e il baratto», era ieri il titolo del commento di Carlo Bonini su Repubblica, nel quale si chiedeva a Giorgia Meloni, «che ha voluto rivendicare a sé il successo politico», di fare «chiarezza» sul fatto che essa «non può e non deve trasformarsi in un baratto con la richiesta di verità e giustizia» su Giulio Regeni. È per respingere questi sospetti che il ministro degli Esteri italiano Antonio Tajani è intervenuto ieri, ai microfoni di Radio 24, per rivendicare il ruolo giocato dalla diplomazia, assieme all'intelligence, ricordando le sue «missioni in Egitto» e gli incontri con Sisi per richiedere la liberazione dello studente. «È stato un lavoro corale», ha sottolineato, per ricordare le convergenti pressioni arrivate da Ue e Usa (che entrambi hanno espresso soddisfazione per l'esito positivo della vicenda) e un lavoro sottotraccia iniziato già con il precedente governo Draghi. Ma, aggiunge, «non c'è stato nessun baratto, nessuna trattativa sottobanco: siamo persone serie» e sul caso Regeni «continueremo a chiedere che si faccia luce sulla vicenda, come abbiamo sempre fatto». Intanto però «abbiamo portato a casa la grazia per questo giovane ricercatore, e credo che il governo abbia ottenuto un risultato molto importante».

Naturalmente, nessuno può essere così ingenuo da pensare che nella annosa trattativa con un regime autocratico e repressivo come quello egiziano, legato all'Italia e all'Occidente da molteplici interessi geopolitici e economici, non entrino in ballo non-detti di vario genere. Del resto fu proprio il governo di Giuseppe Conte (lo stesso che ha appoggiato la fallimentare raccolta firme contro l'invio di armi all'Ucraina invasa) a dare via libera alla consegna di fregate da guerra all'Egitto di Al Sisi, in pieno caso Regeni e Zaki. Ma a non andare giù a molti è che sia stato il governo Meloni a «segnare il gol» finale «di cui dobbiamo esultare tutti», come scriveva ieri su La Stampa - giornale certo non tenero con l'esecutivo - Francesca Paci. Così è difficile non notare i commenti stitici di leader di opposizione come Elly Schlein e lo stesso Conte, che attribuiscono il risultato della liberazione di Zaki ad una generica «mobilitazione di questi anni» pur di non attribuire meriti a Giorgia Meloni, cui pure solo 24 ore prima si intimava di «attivarsi in ogni modo» per la scarcerazione. Come è difficile non sorridere per il tweet istantaneamente mal invecchiato di un agit-prop della sinistra filo-5S come Gad Lerner, che il 18 luglio, dopo la condanna di Zaki, decretava il «fallimento della politica estera italiana che ammicca ai dittatori amici».

Poi c'è anche chi, come il senatore Pd Filippo Sensi (è stato lui, mercoledì, ad annunciare nell'aula di Palazzo Madama la notizia della grazia)non si tira indietro, e invia il suo «ringraziamento personale a chi nel governo e nello Stato ha lavorato per questo risultato».

Si può insomma essere nettamente all'opposizione e riconoscere i meriti dell'avversario quando ci sono: lo fanno Carlo Calenda e Matteo Renzi, e lo fa la dem Lia Quartapelle, riconoscendo «la pressione di un paese intero e al lavoro dei governi Draghi e Meloni». Ironizza l'umorista (di sinistra) Luca Bottura: «La sinistra è così contenta che lo abbia 'liberato' Meloni che potrebbe catturarlo e rimetterlo sul primo volo per Il Cairo».

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