È il sogno proibito di ogni liberale che si rispetti; è il tabù inviolabile per ogni socialista incallito. Stiamo parlando della «flat tax», la rivoluzione fiscale che da decenni molti economisti studiano, alcuni politici auspicano e qualche nazione (con diversi distinguo) applica. Per semplificare, la flat tax, o tassa forfettaria, non è altro che l'applicazione di un'unica aliquota d'imposta per ogni contribuente, sia esso persona fisica o impresa, indipendentemente dal proprio reddito. Il principio su cui si basa è semplice: per aumentare le entrate tributarie di uno Stato e ridurre l'evasione fiscale occorre abbassare le tasse e semplificare il sistema. Il combinato disposto di «troppe tasse e troppo alte» è la causa principale del fallimento di ogni politica fiscale. Che l'abbassamento considerevole delle tasse faccia aumentare il gettito fiscale dello Stato è provato: la Gran Bretagna della Thatcher, che ridusse l'aliquota massima dall'83 al 40%, fece stappare champagne all'erario, e quando in America Ronald Reagan portò l'aliquota marginale massima dal 70 al 28%, le entrate tributarie raddoppiarono.
La flat tax fu ideata alla metà degli anni '50 dal Nobel per l'economia Milton Friedman. In un'America in cui le aliquote andavano dal 20 al 90%, Friedman dimostrò che introducendone una sola per tutti al 23,5% il governo avrebbe aumentato il gettito fiscale, ridotto l'evasione ed eliminato tutte le complesse «scappatoie» che rappresentavano costi reali per la collettività. In Italia fu inserita nel programma di Forza Italia del 1994, quello della «rivoluzione liberale»; a proporla fu Antonio Martino, che di Friedman è stato allievo e amico: un'unica imposta sul reddito al 33% con un aumento considerevole della no tax area. Giulio Tremonti, sul Corriere della Sera, definì la proposta un «miracolismo finanziario» e l'intero programma sulle tasse di Berlusconi una «panzana». Poi sappiamo com'è andata: nel 2001 Tremonti divenne ministro dell'Economia del governo Berlusconi e sposò la riduzione fiscale con la famosa legge delega che portava l'imposta sul reddito a due sole aliquote. Non una flat tax, ma quasi. La legge passò in Parlamento ma il suo ministero «si dimenticò» di fare i decreti attuativi.
Oggi la flat tax è tornata di moda nel dibattito politico italiano per merito della Lega: Matteo Salvini la propone al 25%. In realtà sono molti i movimenti, le organizzazioni sociali e di categoria che la reclamano. Tra questi, i più agguerriti sono quelli del Pin (Partito Italia Nuova), un piccolo movimento d'opinione che fa della flat tax una delle chiavi per la soluzione dei nostri problemi. Il fondatore del Pin, Armando Siri, nell'aprile scorso ha portato in Italia l'economista Alvin Rabushka, il maggior esperto al mondo di flat tax e padre dei sistemi attualmente in vigore in Europa. Con lui ha elaborato una proposta che appare folle ma che in questi tempi di follia reale, forse non lo è: un'unica aliquota per tutti al 15% indipendentemente dal proprio reddito. Risultato secondo Siri (e Rabushka): riduzione del sommerso fino al 90% in 5 anni, aumento del gettito dello Stato stimato progressivamente del 30%, aumento dei consumi e quindi possibile abbassamento dell'Iva (oggi la più alta del mondo); ed effetto non secondario, diminuzione del controllo sulla vita delle persone da parte del fisco, che sta eliminando gli spazi di libertà e minando il rapporto fiduciario tra Stato e cittadini.
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