Sulla diffamazione una farsa lunga 37 giorni

Altro stop per la legge in Aula e ritorno in commissione. Ma Berselli annuncia: "C'è intesa su un nuovo testo blindato"

RomaDoveva essere una legge-blitz, ma forse non sarà neppure una legge. Certo farà scuola in negativo quel che si è visto in Senato, negli ultimi incredibili 37 giorni. Sulla riforma della diffamazione a mezzo stampa siamo al secondo rinvio in commissione Giustizia. Stavolta il precedente è unico e non preannuncia nulla di buono. Il ddl, nato dopo la condanna definitiva del 26 settembre ad Alessandro Sallusti (nel tondo) a 14 mesi di carcere, si è arenato dopo che l'Aula si è pronunciata su alcuni punti. Per il regolamento tornano in Commissione solo articoli ed emendamenti non ancora esaminati ed esiste un solo caso analogo: quello di giugno, quando Carlo Vizzini si dimise da relatore della riforma costituzionale dopo il sì alle norme su semipresidenzialismo e federalismo fiscale. Quel testo giace alla Camera: gli anticorpi parlamentari l'hanno condannato all'oblio.

Farà la stessa fine il ddl sulla diffamazione che tutti volevano con urgenza, anche per evitare la cella al direttore de il Giornale, e ora nessuno vuole più perché rischia di trasformarsi in «legge-bavaglio», per primo lo stesso Sallusti?

È successo di tutto negli ultimi giorni e il quadro l'ha descritto bene il relatore Pdl Filippo Berselli, quando all'ennesimo stop sbotta: «I manicomi vanno riaperti». L'emendamento sull'interdizione del giornalista condannato viene riscritto 7 volte, la relatrice Pd Silvia Della Monica si dimette augurandosi il naufragio del ddl. Berselli, invece, preannuncia un testo-base ex novo, per ricominciare tutto daccapo e annuncia una nuova intesa, su un «testo blindato».
Come il 2 ottobre, quando quella annunciata come una corsa a tappe forzate è partita dalla commissione Giustizia. Il presidente del Senato, Renato Schifani, aveva attribuito la sede legislativa, iter breve senza il voto in Aula. C'era l'accordo bipartisan sul testo-base Gasparri-Chiti. Previsioni fulminanti: una settimana per l'approvazione e invio alla Camera per il sì definitivo. Il tam tam era iniziato prima della sentenza della Cassazione, con politici e giornalisti concordi: bisogna abolire il carcere per reati di diffamazione. Dal Quirinale era arrivata una sollecitazione, un'altra era venuta dalla Guardasigilli Paola Severino. Sembrava una via in discesa. Il 5 ottobre il capogruppo Pdl Maurizio Gasparri dichiarava: «Al Senato il ddl può passare l'11, poi alla Camera bastano 2 settimane». Si annuncia a ripetizione il sì definitivo. Montecitorio già prenota il ddl in calendario per i primi di novembre. Ma iniziano le manovre dilatorie, quelle ostruzionistiche, gli ostacoli si moltiplicano e le liti pure. Attacchi da tutte le parti, destra, sinistra, centro. Il mondo dei mass media è sempre più allarmato dalle modifiche al testo. Viene sventato un primo tentativo per ottenere la procedura normale, lunga. A metà ottobre il secondo blitz riesce e salta il tavolo: si andrà in Aula per il voto.

È l'inizio della fine. Passano i giorni tra uno slittamento e l'altro, stop and go. Il testo peggiora, diventa sempre più punitivo. Esce allo scoperto il partito trasversale anti-giornalisti che trasuda odio e sembra animato da spirito di vendetta. Si vede all'opera il 26 ottobre, in un'Aula del Senato diventata una specie di «Colosseo che vuole vedere scorrere il sangue», dice la capogruppo Pd Anna Finocchiaro. Quel giorno salta l'ultima intesa raggiunta sui brandelli del testo tra i vertici politici che non riescono più a compattare i gruppi.

Troppi outsider, troppi franchi tiratori, la disciplina di partito non funziona. A fine mese, altro colpo di scena: si torna in commissione sull'articolo 1. Poi di nuovo in Aula, il tempo dell'ennesimo scontro e ancora il rinvio in Commissione.

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