La tentazione del Colle: scaricare l'inutile Letta

Napolitano è tentato da un cambio di passo deciso e radicale: congedare Letta e battezzare, con il confronto tra Renzi e il centrodestra, un nuovo governo

Il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano e il premier Enrico Letta
Il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano e il premier Enrico Letta

Si dice che Giorgio Napolitano è tentato da un cambio di passo deciso e radicale: si tratta di congedare con stile il governo Letta, che notoriamente si regge sulla sua opera di argine al partito della crisi e delle elezioni, e di battezzare a partire dalla prossima primavera, con il confronto tra il Pd di Renzi e la coalizione di centrodestra, un nuovo capitolo, fondato sulla scelta maggioritaria di mandato degli italiani, della politica repubblicana. La chiave di tutto è il varo della nuova legge elettorale in tempi certi e ravvicinati, a partire dal 27 gennaio, data di incardinamento parlamentare di tutto il processo. Non sono affatto sicuro che le cose stiano così, ma non mi stupirei se il realismo politico del capo dello Stato lo portasse alla conclusione logica che in molti auspicano e si aspettano da lui. E qualcosa mi suggerisce che questa è la linea di tendenza.

Napolitano non ha formalmente alcuna fretta. È eletto per sette anni, dei quali sono trascorsi appena otto mesi, e le forze se Dio vuole gli reggono tuttora, a parte l'umana sofferenza per un gratificante ma faticoso reincarico non desiderato per motivi fin troppo ovvi. È la sostanza che conta, però. La parabola del secondo settennato, come ha accennato in modo indiretto più volte parlando al Paese anche in modo solenne, nasce nell'emergenza e deve concludersi in un tempo non lungo con risultati significativi. Fino a prima della sentenza agostana firmata dal giudice Esposito, e delle sue conseguenze traumatiche come l'esclusione di Berlusconi dal Senato e la riduzione della maggioranza di governo alla misura di un piccolo ribaltone, si poteva pensare che questo governo avrebbe avviato riforme costituzionali serie in base a un patto politico bipartisan (che alcuni chiamano di pacificazione, altri no, ma conta il fatto, non il nome che gli si voglia dare). Si poteva anche pensare che l'esecutivo avrebbe tenuto in ordine i conti pubblici e insieme avviato riforme strutturali e un nuovo corso in grado di premere sull'acceleratore nelle politiche di creazione di lavoro e di crescita del prodotto interno lordo, per portare seriamente e stabilmente l'Italia fuori dalla penosa recessione in cui è stata per anni ingabbiata, anche ridisegnando il posto o il ruolo del Paese nell'Europa monetaria. Ora, entrambe le cose non sono più chiaramente nell'orizzonte, non dico del probabile, ma anche solo del possibile.

Ratificare il fallimento di questo schema avviato con la rielezione di Napolitano e la scelta di Letta jr. a capo del governo non è cosa facilissima, ma ormai è improcrastinabile. Due fattori politici primari vanno in questa direzione, e tutti li conoscono e possono valutarli. Primo, l'elezione di Matteo Renzi a capo del Pd, con un mandato per governare in base a un programma di cambiamento che nasca da una sfida e da una soluzione elettorale di piena legittimità politica, di vera stabilità politica. Secondo fattore, lo stato del centrodestra. Berlusconi ha reagito alla elezione di Renzi con composta sapienza istituzionale. Ha derubricato la secessione dei ministeriali dell'ex Pdl, con il suo comportamento soft, a episodio minore. Alfano e i suoi possono far chiacchiere e cercare di mettere in atto comportamenti interdittivi per durare al governo, ma è poca cosa, lo si vede a occhio nudo. Il loro destino è un mesto riassorbimento, con il sorriso finto sulle labbra, o una deriva nell'isolamento privo di senso. Inoltre Berlusconi accetta il terreno che offre la nuova situazione del Pd, e di buon grado: fa la sua svolta generazionale, la motiva con un tratto di autenticità e perfino di ingenua condiscendenza («bisogna tenere il passo di Renzi»), lavora con calma per le elezioni abbinate, europee e politiche, e si muove in favore di una nuova legge elettorale (immagino abbia anche piani b,c,d,e,f,g, com'è nel suo stile, ma la linea è quella).

Tutte le condizioni sono dunque riunite per la svolta, e il Quirinale non può non considerare che i tempi sono maturi e che la funzione stessa di un presidente rieletto alle condizioni note, otto mesi fa, è quella di favorire il processo di normalizzazione politica, visto che il governo dell'emergenza con un mezzo ministero di pacificazione superstite, e fallimentare, non dà più molto, anzi complica le cose. I tassi di mercato sempre più compatibili ai quali lo Stato italiano emette i suoi bond, e la riduzione dello spread con quelli tedeschi, sono poi l'elemento decisivo che suggerisce all'europeista Napolitano una nuova strategia, conclusiva, di uscita dall'anomalia di questi anni, iniziatasi con l'esecutivo presieduto da Mario Monti. Il problema di un presidente che si vuole garante è sempre quello del lascito, del che cosa sarà dopo di lui. Doppiamente nel caso del Napolitano rieletto.

Rapida definizione pattizia della legge elettorale, senza i giochini di maggioranza a ritardare e inquinare, ed elezioni politiche susseguenti: questo è il lascito serio e responsabile al quale un uomo di Stato come Napolitano può oggi ragionevolmente aspirare, prima che il tutto si impantani in una spirale di ambizioni piccine e piccine ritorsioni che farebbe il danno del Paese e del sistema politico. E a quanto pare, se ne è convinto.

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