La «Toga d'Oro» è il massimo riconoscimento che un giurista possa ottenere. Rappresenta una somma di valori: la sacralizzazione dei principi di correttezza, di rispetto delle leggi e di alta considerazione dello Stato di diritto.
A dicembre, il Consiglio dell'Ordine degli avvocati di Roma ha deciso di conferirla alla memoria di un illustre avvocatoa che ha lasciato un segno indelebile: Dario Di Gravio.
Ad un anno dalla scomparsa, il 1 novembre nel giorno di Ognissanti, arriva l’annuncio del solenne riconoscimento che verrà attribuito alla figura di questo giurista, indicato non solo al mondo dell'avvocatura ma all'intera comunità, come esempio di vita in un mondo in cui i principi fondamentali che rappresenta appaiono sempre più appannati.
L'avvocato Di Gravio, abruzzese di nascita e romano d’adozione, è stato un professionista la cui fama, per oltre mezzo secolo, è andata oltre i confini della capitale e dello Stato.
Oltre all'attività forense si è distinto come giornalista, scrittore e poeta. Come avvocato, il suo nome è stato impegnato in processi famosi. Esordì nella professione con una causa storica, quella per far riconoscere la pensione di guerra a Donna Rachele Mussolini. Famoso anche il processo a favore della famiglia di Italo Balbo, per la nota cassetta di sicurezza bloccata dalla Banca d'Italia.
Nato a Cerchio nel 1925, Di Gravio ha aperto a Roma il suo studio negli Anni Cinquanta e si è specializzato in settori come il diritto societario e fallimentare, quest'ultimo riformato anche grazie alle sue battaglie giudiziarie sempre in favore del fallito, bollando a più riprese la legge in materia del 1942, come retaggio di una società ormai passata.
Il fallimento, sosteneva l’avvocato, non deve essere punitivo, ma aprire uno spazio per la ripresa dell'imprenditore e quindi del generale tessuto socio-economico nazionale.
Per valutare la validità e attualità di una legge il giurista raccomandava il metro del «senso comune», da tutti avvertito ed accettato, non imitato o imposto, come partecipazione di un mondo naturale e spirituale.
«Il problema - scriveva Di Gravio- si pone ogni volta che una legge o l’applicazione di una legge gli cozza contro. Ed allora non si tratta di rivisitare il senso comune, che è universale, ma si tratta di rivisitare, riformare, la legge “insensata“, che è essa particolare ed occasionale e, in conclusione, ingiusta».
Ecco perchè lo studioso è arrivato a proporre la creazione di una «Corte suprema del senso comune», formata non da giuristi ma da poeti, filosofi, madri di famiglia, padri disoccupati, sacerdoti di ogni religione, sofferenti, «insomma tutti coloro che hanno un rapporto diretto e non mediato con la realtà di fatto».
I titoli dei tanti libri che Di Gravio ha scritto negli anni sono emblematici di un’esuberanza culturale, di una vis comica, di un’ironia, di una capacità di provocazione che arriva alla ribellione e l’accademismo non riesce ad imbrigliare. Eccone alcuni: «Il fallimento come funerale di Stato per le piccole imprese dal glorioso passato», «Lo slalom gigante dell’espropriazione, fra credito fondiario e fallimento», «Revocatoria di factoring: lascia o raddoppia?», «I ferri del mestiere».
Presentando nel 2000 la sua ultima opera, «Il rosario della giurisprudenza fallimentare», l’ amico Virginio Rognoni accomunava il suo metodo di ragionamento a quello di «grandi» del mondo del diritto come Capograssi, Satta, Carnelutti, Calamandrei. Il suo insegnamento, afferma l’exministro dell’Interno ed exvicepresidente del Csm, indica che «lo stato di grazia di giudice e avvocati sta nel saper individuare, di volta in volta, il punto di equilibrio tra interessi contrapposti in cui si colloca la norma, come soluzione del conflitto».
Nella stessa occasione, Umberto Apice, della Procura generale della Cassazione, immaginava che tra 50- 100 anni, un ragazzo dedicasse a Dario di Gravio la sua tesi di laurea e si chiedesse se questo personaggio fosse più un avvocato o un giurista, un poeta, un narratore, o addirittura un autore di fantadiritto. É stato tutto questo, è la risposta, unificato dall’impulso a smitizzare, a dissacrare,a polemizzare.
Il suo sogno di giurista, spiegava l’expresidente del tribunale Fallimentare di Roma Ivo Greco parlando del «Rosario», era combattere attraverso critiche aspre e un sorriso beffardo le «norme ingiuste», in cui la verità annega nel concettualismo E questo per resuscitare la vera Giustizia, non più imprigionata nelle «gabbie della codificazione», cioè quel «complesso di leggi che copre come un reticolo insuperabile la libertà dell’uomo».
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