Un'altra «verità» sul caso Moro: le Br aiutate dai soliti servizi

Un'altra «verità» sul caso Moro: le Br aiutate dai soliti servizi

P iù che un giallo è una saga senza fine. Il sequestro e la morte di Aldo Moro sono una fabbrica sempre in attività di rivelazioni e scoop. Con raccapricciante puntualità escono di anno in anno memoriali inediti, lettere di protagonisti fin lì ai margini, confessioni naturalmente postume, analisi di investigatori del giorno dopo. La verità pare finalmente a portata di mano, a un centimetro dall'opinione pubblica che la reclama, ma poi a ben vedere sfuma all'orizzonte come un miraggio. E la ruota continua a girare e a macinare dettagli ancora sconosciuti, vai a sapere se veri o solo verosimili. È un meccanismo avvincente ma accecante che segna alcune grandi pagine storiche: l'assassinio di John Kennedy, la morte di Olof Palme, la tragedia di Aldo Moro. Ci riempiono di dati e alla fine ne sappiamo meno di prima. Forse ci depistano, di sicuro ci confondono.
Capita anche questa volta: un poliziotto in pensione, un ispettore che si è sempre occupato di terrorismo, dice di avere risolto un capitolo di quel 16 marzo 1978, forse la giornata più buia nella notte della Prima repubblica. Quella mattina in via Fani le Br sequestrano Aldo Moro e massacrano la sua scorta. Fra i tanti misteri di quell'azione c'è anche quello della Honda blu avvistata in via Fani. Dalla Honda furono quasi sicuramente sparati i colpi che sfiorarono l'ingegner Alessandro Marini, l'unico civile coinvolto in quella carneficina. Chi erano i due giovani in sella alla moto? I brigatisti sono sempre stati categorici: «Noi con la Honda non c'entriamo». E però non si è mai saputo chi fossero il conducente e il passeggero che aprì il fuoco contro Marini e centrò il suo motorino.
Ora l'ispettore Enrico Rossi ci dà la soluzione, che però non è verificabile. Rossi sostiene che i due erano agenti segreti alle dipendenze del colonnello del Sismi Camillo Guglielmi e avevano un compito ben preciso: «Proteggere le Br da qualsiasi disturbo». Sì, il ruolo degli 007, guidati da Guglielmi che tanto per cambiare era in quel tratto affollato di strada per sovrintendere alle operazioni, era quello di aiutare i terroristi a portare a termine la loro sanguinaria impresa. Una tesi che s'iscrive alla nutritissima scuola dietrologica e predilige una lettura di via Fani multistrato: con i brigatisti esecutori di un disegno orchestrato da menti raffinatissime, nascoste negli apparati dello Stato e oltre i confini. Una tesi suggestiva che però, modesto dettaglio, ha sempre trovato l'opposizione feroce dei brigatisti: tutti, a cominciare da Mario Moretti, hanno sempre catalogato alla voce fantascienza i tentativi di inserire Sismi, Cia, Kgb e chi più ne ha più ne metta in via Fani o in qualche segmento della prigionia e dell'esecuzione di Moro.
La vicenda s'innesca con la scioccante missiva anonima recapitata a un quotidiano nell'ottobre 2009: «Quando riceverete questa mia lettera saranno passati almeno sei mesi dalla mia morte», imminente per un tumore inesorabile. «La mattina del 16 marzo - prosegue il testo - ero su una moto e operavo alle dipendenze del colonnello Guglielmi. Con me alla guida c'era un altro uomo proveniente come me da Torino. Il nostro compito era quello di proteggere le Br nella loro azione da disturbi di qualsiasi genere». Insomma, quella mattina lo Stato, o meglio la sua parte più oscura, stava con i terroristi. Rossi legge la lettera casualmente nel febbraio 2011 e s'imbatte in alcuni particolari inquietanti: la missiva non è stata protocollata e non sono stati disposti accertamenti. Nulla di nulla. Lui, invece, si dà da fare. Uno dei due motociclisti è morto, ma l'altro è ancora vivo e Rossi lo stana facilmente. Dettaglio molto interessante: l'uomo possiede due pistole regolarmente denunciate e una delle due è una Drulov cecoslovacca, un'arma che assomiglia a una mitraglietta. Rossi telefona all'ex agente che gli indica dove è la prima pistola, ma tace sulla seconda. Allora scatta la perquisizione con sorpresa finale. In cantina ecco spuntare la Drulov, poggiata sopra la copia dell'edizione straordinaria di Repubblica di quel fatidico 16 marzo. Sembra di stare dentro un film. Che però s'interrompe sul più bello: intervengono, non si sa bene perché, i carabinieri, di fatto l'inchiesta esce dal perimetro di Rossi e s'impantana. Niente perizie. Niente interrogatori. Niente di niente. Rossi protesta, ma fa un buco nell'acqua. Decide di andare in pensione, a 56 anni, poi scopre che l'uomo delle due pistole è morto, fatalità, dopo l'estate del 2012. Non gli resta che raccontare all'agenzia Ansa quello che ha capito.

Prima di aggiungere ancora un elemento: «Il guidatore somigliava a Eduardo De Filippo», proprio come aveva messo a verbale l'ingegner Marini.
Tutto torna. Anche troppo. Ma nulla è certo. In ogni caso il fascicolo è confluito nell'ennesima inchiesta aperta dalla procura di Roma sul caso Moro.

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