Intese troppo larghe

Comunione e Liberazione è innanzitutto un movimento ecclesiale. Non lo si dovrebbe mai dimenticare e, soprattutto, non si dovrebbe commettere l’errore di interpretare il fenomeno con categorie esclusivamente politiche. Tuttavia, proprio una delle principali novità che essa ha rappresentato in campo ecclesiale - quella di rigettare la separazione tra la sfera della spiritualità interiore e quella dell’impegno civile - impone di tener conto, nel giudizio, anche della sua proposta politica. La tradizione rappresentata dal Meeting di Rimini rafforza poi quest’esigenza. Non di rado, infatti, momenti di svolta importanti della vicenda politica nazionale sono stati annunziati nel corso di questo appuntamento estivo.
Quest’anno le premesse non sembrano all’altezza del blasone. Lo affermo senza ombra di polemica, con lo spirito di chi vorrebbe dare il suo contributo a far emergere una riflessione originale e, soprattutto, tiene a conservare degli interlocutori fin qui preziosi. Senza infingimenti, però, la proposta delle cosiddette «larghe intese» nel cui segno si è inaugurato il Meeting mi è sembrata, allo stesso tempo, troppo e troppo poco.
Troppo: perché quella proposta si sarebbe potuta affermare, innanzitutto come conseguenza del buonsenso, all’indomani delle elezioni politiche, quando dalle urne è uscito un Paese spaccato in due parti uguali e solo la casualità del meccanismo elettorale ha concesso a una delle due di prevalere per una quantità di seggi risicata e instabile. La proposta, d’altro canto, fu allora avanzata da Berlusconi e rigettata dalla controparte. Scelta legittima, s’intende, dalla quale è però derivato che i vertici dello Stato al gran completo, il governo del Paese e pressoché tutti i luoghi che dipendono direttamente da una nomina del potere centrale, siano stati occupati dalla sinistra. E più passa il tempo più questa tendenza si afferma (si presti attenzione, nei prossimi mesi, a ospedali e università), senza esaurire la proposta di governo di Prodi e compagni, ma condizionandola fortemente. Con tutta la considerazione per la forza di persuasione dei ciellini, non ritengo che questo indirizzo possa modificarsi attraverso una semplice retromarcia o un ripensamento più o meno sincero.
Troppo poco: perché questa considerazione mi porta a dire che dal Meeting ci si deve attendere di più. Bisognerebbe prendere atto, tutti quanti, che una stagione della vicenda politica italiana si è chiusa e che è urgente trovare nuove energie per andare avanti. L’attuale coalizione di governo in questi mesi ha fatto i conti con il naturale affievolirsi dell’antiberlusconismo che, fino a oggi, ha costituito la ragione del suo mantenersi unita. Si sono per questo approfondite divisioni e differenze limitate solo dalla necessità di conservare un potere mantenuto per meno di un pugno di seggi. Anche nel centrodestra d’altro canto, è sempre più chiaro, la vecchia unità sta venendo meno. Essa potrà essere rinnovata, ma a nuove condizioni e in nuovi contesti. I centristi rivendicano mani libere. Tutti gli altri, piuttosto che inseguirli, gliele dovrebbero concedere e lavorare, con gradualità ma anche con tenacia, alla nascita di qualcosa di nuovo. Per fare i conti ci sarà tempo, anche perché non si vota domani.
Al cospetto di questo quadro, ogni proposta di nuove aggregazioni di governo dovrebbe privilegiare i contenuti piuttosto che le formule. L’agenda politica, infatti, si sta riempiendo di temi e problemi che vanificano alcune vecchie contrapposizioni e fanno intravedere la possibilità di inedite alleanze. A me sembra che questa fase della storia dell’umanità proponga tre sfide epocali destinate a designare le appartenenze e segnare gli schieramenti di domani. La prima concerne la politica di potenza e ha per epicentro l’esplosiva situazione mediorientale; la seconda è quella dell’integrazione delle masse - in particolare musulmane - che stanno giungendo sempre più numerose nel mondo occidentale; la terza richiama il problema dell’identità in senso più profondo ed è rappresentata, in particolare, dalle nuove frontiere della ricerca bioetica.
C’è chi continua a pensare che questi tre aspetti potranno per sempre rivendicare un’assoluta autonomia. Ma più il tempo passa e più diviene chiaro come essi, in realtà, siano tre aspetti di un unico problema drammaticamente attuale: il significato da attribuire all’Occidente e cosa fare affinché quel senso non si vanifichi per sempre. I ciellini, per la loro storia e per il patrimonio culturale del quale sono portatori, possono meglio di altri comprendere la profondità di questa interdipendenza e il suo potenziale di innovazione. Il bisogno di nuove e più ampie aggregazioni, dunque, dovrebbe essere ricercato mettendo al centro le politiche attraverso le quali affrontare questa sfida epocale.

Così solo Cl continuerebbe a svolgere il ruolo di lievito del nuovo, confermando quel tratto di anticonformismo che fin qui ha caratterizzato la proposta del movimento. Il rischio, in caso contrario, è quello di limitarsi a fornire spazi per esercizi di stile dei soliti noti, privi di un effettivo domani.

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