Invasioni, complotti e misteri: il cinema in pasto ai paranoici

Invasioni di forze aliene, in massa o alla spicciolata. Complotti. Presenze misteriose e inspiegabili. Paranoia. Il più grande e fecondo contenitore dell’immaginario collettivo contemporaneo, il racconto cinematografico popolare americano, su questi elementi da almeno un trentennio sta costruendo la propria forza di comunicazione, divertimento e persuasione. E, ovviamente, economica. In una stagione che stenta ancora a decollare, buon esito ha avuto Battle: Los Angeles (in programmazione in Italia il 22 aprile), diretto dal sudafricano Jonathan Liebesman. Il film racconta con dispiego di effetti speciali la lotta disperata di un plotone di marines, impegnati a difendere Los Angeles da un devastante attacco alieno. I nemici sono caduti dal cielo come meteoriti e contro di loro la forza militare a disposizione non sembra sufficiente. Come al solito ci vuole il coraggio degli eroi per ricacciare indietro il pericolo.
Steven Spielberg è forse il più grande inventore di storie di extraterrestri: buoni (Incontri ravvicinati del terzo tipo), buonissimi (E.T.), davvero cattivi (La guerra dei mondi). Spielberg con l’inseparabile amico Ron Howard è il produttore di un film attesissimo: Cowboys & Aliens di Jon Favreau (l’uscita americana è prevista nel picco della buona stagione, il 29 luglio). Nell’Arizona della fine dell’Ottocento piomba un cowboy alieno: Daniel Craig, l’attuale, scattante e muscoloso 007, con un misterioso bracciale spaziale attaccato al polso, che emette strani segnali e sprizza una luce azzurrina. Poco dopo si scatena un attacco degli extraterrestri e nello scenario di guerra troviamo addirittura Harrison Ford, Indiana Jones invecchiato ma sempre efficace. L’ambientazione nella seconda metà dell’Ottocento è utilizzata anche dal veterano regista Robert Redford per il suo The Conspirator (uscirà il 15 aprile in America). Siamo al complotto, non alieno ma umano. Il primo vero grande complotto dell’America moderna fu ordito per assassinare il presidente Abramo Lincoln, fresco di vittoria nella guerra civile, nel 1865. Lincoln venne ferito a morte con un colpo di pistola, mentre si trovava sul palco presidenziale in un teatro di Washington. A sparargli fu un sudista, l’attore virginiano John Wilkes Booth. L’omicida apparteneva ad un gruppo di cospiratori (tutti arrestati e condannati a varie pene), tra cui c’era Mary Surratt, la prima donna a essere giustiziata negli Stati Uniti. Un giovane avvocato-eroe di guerra, chiamato senza entusiasmo a difendere l’imputata, non si accontenta della verità ufficiale. E scopre il complotto. La frase scelta per il lancio del film dice che un proiettile ha ucciso Lincoln, ma ad ucciderlo non è stato solo un uomo (lo stesso si è detto di Lee Oswald, l’uomo che avrebbe sparato a John Kennedy nel 1963). Sempre sul complotto, ma molto più misterioso e segnato da inquietanti presenze, si regge I guardiani del destino (sugli schermi italiani dal 27 maggio), diretto dallo sceneggiatore di successo George Nolfi (Ocean’s Twelve e The Bourne Ultimatum. Il ritorno dello sciacallo) e tratto da un racconto dello scrittore di fantascienza Philip K. Dick. Dall’età di Lincoln ci ritroviamo nel mondo dell’odierna politica statunitense. Matt Damon, brillante politico in carriera, conosce un’affascinante ballerina (Emily Blunt). Ma strani e misteriosi accadimenti, determinati da irreali e inquietanti personaggi, rendono la vicenda angosciante. Ombre sinistre e minacciose si allungano sui vetri specchiati dei grattacieli, ed entrano sin dentro i palazzi governativi.
Combattimenti con alieni, complotti, forze occulte onnipotenti e perturbanti. Gli incubi della società americana si riflettono sullo schermo. Il ritratto esistenziale dalla paranoia, esorcizzata attraverso la celluloide. Qualcosa di simile era già avvenuto negli anni Settanta del secolo passato. La paranoia era il filo rosso che legava film come La conversazione di Francis Ford Coppola, I tre giorni del Condor di Sydney Pollack, Duel di Steven Spielberg, Cane di paglia di Sam Peckinpah, Taxi Driver di Martin Scorsese. I fantasmi del Vietnam, della recessione economica, della destrutturazione industriale, del Watergate e della violenza, si materializzavano nella cinematografia. Stiamo assistendo allo stesso fenomeno? C’è da dubitarne. Il cinema degli anni Settanta aveva un riscontro tutto sommato diretto con la realtà.

Quello di oggi, ambientato nel passato, nel presente o nel futuro, è solo una forma narrativa (e multimediale) dell’industria culturale globalizzata. Una grande esplosione, simile ai fuochi d’artificio: spettacolari ma poco utili per rischiarare il cammino nella notte.

Commenti
Disclaimer
I commenti saranno accettati:
  • dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
  • sabato, domenica e festivi dalle ore 10:00 alle ore 18:00.
Accedi
ilGiornale.it Logo Ricarica