Irak, Bush vuol riaprire il rubinetto del petrolio

Registrazione choc della voce di Alì il chimico. Altro filmato del cadavere del dittatore

da Washington

Riconquistare Bagdad d’assalto e poi inondarla di petrolio. Si potrebbe anche riassumere così il piano di Bush per un rilancio delle «fortune» americane in Irak e delle proprie in America. Il presidente lo esporrà domani, certo in tutt’altri termini, nel discorso molto atteso in cui finalmente metterà le carte in tavola. Tutto sta ad indicare che sul piano militare, dunque anche su quello politico convenzionale, Bush respingerà quasi in toto le raccomandazioni del «gruppo di studio» bipartitico sull’Irak, ogni consiglio a «raffreddare» il conflitto e, tanto meno, a dare inizio allo sgombero delle truppe americane. Egli invierà invece rinforzi con funzioni offensive con ogni probabilità concentrate sulla zona di Bagdad. Sono incerte le dimensioni dei rinforzi. Non sarà comunicato, con ogni probabilità, l’obiettivo degli attacchi né l’identità del nemico principale. Rimarrà con ogni probabilità incerta anche la durata dello sforzo bellico aggiuntivo, che i capi militari Usa (per la verità scettici sull’intero progetto) preferirebbero «limitato e concentrato» mentre i consiglieri neoconservatori, tuttora i più ascoltati da Bush, lo preferirebbero permanente, come un’estensione «irrobustita» della strategia in corso, senza grandi risultati da ormai quattro anni.
L’elemento davvero nuovo non sarà probabilmente espresso in forma così aperta ma è destinato ad essere quello di maggior impatto. L’America intende proporre al governo di Bagdad e ai capi delle fazioni e sette etniche e religiose dell’Irak la riapertura su grande scala del rubinetto del greggio, che in quasi quattro anni di potere Usa in Irak ha continuato a funzionare col contagocce, soprattutto a causa del sabotaggio di guerriglieri e terroristi, contribuendo in modo decisivo al declino dell’economia irachena dopo le avventure belliche di Saddam Hussein e le conseguenze altrettanto devastanti del decennale embargo sulle esportazioni di petrolio. Se la produzione, e dunque le esportazioni, potessero ripartire appieno, l’Irak potrebbe conoscere un boom non troppo diverso da quello che aiuta oggi i regimi in Iran, in Venezuela e anche in Russia e il mondo intero ne godrebbe benefici anche maggiori con una diminuita tensione dei costi energetici.
Due ostacoli importanti si frappongono tuttavia. Il primo è lo stato di guerra che blocca finora l’estrazione, il secondo è il furioso contrasto fra curdi e sciiti (nel cui territorio si trovano quasi tutti i giacimenti e che intendono dunque tenersi gli utili) e i sunniti, che temono di trovarsi emarginati economicamente oltre che politicamente. Su questo punto Washington potrebbe esercitare forti pressioni, preannunciare per i sunniti una specie di «cassa del Mezzogiorno» con una distribuzione geografica dei redditi.

Ma non è detto che ci riesca, anche perché il rilancio e la reimmissione del petrolio iracheno nel grande giro dell’economia mondiale potrebbe avvenire, secondo il piano, appaltando lo sfruttamento dei giacimenti alle multinazionali, straniere ma soprattutto americane, le sole che hanno i mezzi. Ma è proprio quanto temono i nazionalisti, non soltanto sunniti, che non mancheranno di obiettare alla perdita, che ne conseguirebbe per l’Irak, di una larga parte della sovranità nazionale e politica.

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