Washington - Tutto quello che chiede è una chance in più. Una possibilità, un’occasione. L’America deve «provare» la nuova strategia in Irak per una ragione principale che l’alternativa sarebbe il disastro. Questo è il succo del messaggio di George W. Bush sullo stato dell’Unione davanti alle Camere riunite, di cui il dramma iracheno ha finito con l’essere il perno, anche se il presidente ha allargato il discorso ad altri temi, soprattutto interni e soprattutto economici come è previsto per questo tipo di messaggi. Egli ha fissato, per esempio, un traguardo per la diminuzione del fabbisogno energetico degli Stati Uniti, il 20 per cento in dieci anni. Ha detto come riportare il bilancio federale in pareggio entro cinque anni partendo dal disavanzo record di oggi. Ha mostrato «aperture» ai democratici su argomenti come l’assistenza sanitaria. Ha lasciato cadere, perché manifestamente irrealizzabile con il nuovo rapporto di forza in Congresso, il progetto di rendere permanente la riduzione provvisoria delle tasse.
Insomma Bush ha teso la mano e ha trovato qualche consenso e applauso anche dall’opposizione. Però finché si è mantenuto sul terreno della politica interna. Quando è passato all’Irak (citato 34 volte), al trentunesimo minuto dell’allocuzione, il consenso si è rarefatto o essiccato.
Bush ha colto l’occasione, invece, per dare una sua ricostruzione degli eventi nei quasi quattro anni trascorsi dall’intervento. È sua convinzione che non è stato un caos indiscriminato a far precipitare le cose bensì una strategia. «Un nemico calcolatore ha osservato gli sviluppi positivi nel Medio Oriente durante il 2005, ha aggiustato le sue tattiche e ha colpito nel 2006», con gli attacchi terroristici contro la maggioranza sciita, come prevedendo che essa avrebbe fatto ricorso alla violenza, alla pulizia etnica e alle squadre della morte; di modo che oggi le due facce del terrore si sommano, perché comune è in realtà l’obiettivo: «Rovesciare i governi moderati» nel Medio Oriente, far fallire l’esperimento democratico e imporre la loro ideologia e il loro fanatismo.
In questa situazione all’America non rimane che reagire mostrando la propria forza, contro tutti, perché l’estremismo sunnita e quello sciita, Al Qaida e i fondamentalisti «foraggiati dall’Iran sono due facce della stessa minaccia totalitaria. Se dovessero prevalere, si creerebbe uno scenario da incubo. Non è per questo che siamo entrati in Irak, ma questa è la guerra in cui ci troviamo. Tutti vorremmo che questa fosse già finita e vinta; ma non al prezzo di abbandonare i nostri amici e di mettere in pericolo la nostra sicurezza. In questo giorno, in questo momento è ancora in nostro potere decidere l’esito di questa battaglia. So che molti di voi sono critici e rispetto i vostri argomenti, ma so anche che per qualunque cosa voi abbiate votato, non avete votato per la sconfitta».
Un tono differente dal solito, quello di Bush, con meno sfida, senza sfumature di arroganza, che esprime una «strategia di conciliazione». Che per il momento non ha funzionato: poche ore dopo la conclusione dell’appello di Bush, la commissione Esteri del Senato ha approvato una risoluzione in cui si disapprova l’invio di rinforzi in Irak. Il documento è passato con 12 voti contro 9, il che significa che agli undici senatori democratici si è aggiunto un repubblicano e precisamente il senatore Chuck Hagel, che ha annunciato la propria scelta con dichiarazioni molto dure: «Questa non è una strategia: è una partita di ping pong con le vite dei soldati americani».
Il «no» di Hagel non è una sorpresa, così come non lo è la compattezza dei democratici.
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