Irlanda, meno IRA più gioia di scrivere

«La primavera dell’odio» di Louise Dean è un dramma familiare nella Belfast del ’79 E «Il marinaio nell’armadio» di Hugo Hamilton esorcizza la violenza con storie private

Terra di poeti, bevitori, musicisti, guerrieri ed emigrati, l’Irlanda. Fino a qualche tempo fa anche sinonimo di violenza fratricida. Eppure, chi oggi si muove per le strade di una città qualsiasi della Repubblica d’Irlanda non si accorgerà che per circa trent’anni il conflitto Protestanti-Cattolici ha dominato le cronache di mezzo mondo. L’unico modo per avvertire la pesantezza dell’aria che tira è avventurarsi in una delle sempre meno numerose zone a rischio del Paese, dove ancora il risentimento settario cova sotto la cenere di un armistizio conquistato a prezzo di diverse migliaia di vittime, tra civili, forze di polizia e militari. Così, oggi il prezzo dell’indipendenza, al sud, e della pace, al nord, i giovani se lo stanno dimenticando. Chi non se ne dimentica è un nutrito stuolo di cineasti e, soprattutto, romanzieri che pesca a piene mani in un retroterra culturale e storico in grado di fornire molti spunti narrativi.
Louise Dean è tra loro. Per quanto inglese, il suo romanzo La primavera dell’odio (Il Saggiatore, pagg. 384, euro 16) sembra scritto da una donna di Belfast. È un accorato elogio della famiglia, persino quando non è in grado di fornire la serenità che un teatro di guerra incrina. Il tutto esplorato da due opposti punti di vista. Quello di Kathleen, madre frustrata e repressa con due figli giovani da crescere in un ambiente difficile, un marito pusillanime più interessato a spendere i pochi soldi disponibili al pub che alla educazione dei figli, una figlia che vive in Inghilterra e che sta bene dov’è e un maschio nel famigerato H-Block di Maze. E quello di John Dunn, ex-militare ora neo-guardia giurata, con una coscienza civile e forti difficoltà ad accettare gli orrori del carcere duro.
Siamo nella Belfast del 1979, a pochi mesi dal famoso sciopero della fame che per poco non fece cadere il governo di Margaret Thatcher. Quel che commuove è la scelta di fare di tale evento uno spettro che aleggia su tutto il romanzo, senza entrarvi direttamente. I terroristi dell’IRA in carcere chiedevano condizioni di vita diverse da quelle dei criminali comuni e avevano avviato una clamorosa protesta, rifiutando di indossare l’uniforme e imbrattando le celle con gli escrementi. La Lady di Ferro di cose giuste ne ha azzeccate parecchie ma ha anche fatto segnare diverse sconfitte morali clamorose o, se vogliamo, diverse vittorie di Pirro: dallo sciopero dei minatori allo sciopero della fame capitanato da quel Bobby Sands che divenne eroe nazionale e icona mondiale della fede negli ideali. Ecco, dunque, le difficoltà di una madre a tenere unita la famiglia e il suo terrore di fronte all’ipotesi che il figlio, poco più che adolescente, possa ergersi a paladino di una causa che non capisce fino in fondo, immolandosi sull’altare del digiuno da martiri, per emulare le gesta dei compagni di carcere. Un libro sincero e poco solare, che però sa ricreare il clima di quei giorni.
Non mancano certo gli scrittori che si sono cimentati con l’ambiente degradato e diviso di Belfast e dintorni. Come non ricordare Eureka Street di Robert McLiam Wilson che, attraverso le miserie di personaggi senz’arte né parte, racconta un mondo difficile, o Resurrection Man di Eoin McNamee, sconvolgente spaccato dell’odio settario che divide cattolici e protestanti e che porta a violenze indicibili? Peccato davvero che non sia mai stato tradotto in italiano The Shankill Butchers di Martin Dillon, un reportage tragico sugli orrori di quella stessa banda dei macellai di Shankill che negli anni ’70 seminò il terrore a Belfast.
Ma c’è anche chi, come Hugo Hamilton, preferisce esorcizzare la violenza delle vicende irlandesi attraverso storie private, quasi autobiografiche, con al centro le contraddizioni della sua famiglia. Di madre tedesca e di padre irlandese e maniacalmente patriota, Hamilton, fine narratore, con Il marinaio nell’armadio (Fazi, pagg. 234, euro 16) aggiunge un tassello alla sua lunga autoanalisi letteraria, avente per fondale un’Irlanda dove risentimento e violenza sono sempre in agguato. Uno scrittore innamorato dell’Irlanda, ma sufficientemente lucido per metterne a nudo vizi e fragilità.
E di fragilità individuali e collettive ce ne sono tante nell’opera di Dermot Bolger, il cui Verso casa è uno splendido esempio di grande scrittura irlandese. Sembra proprio che a un autore irlandese sia impossibile non fare i conti con la storia del proprio Paese. Lo testimoniano i romanzi di Seamus Deane, William Trevor, Dermot Healy, per citarne alcuni.
D’altra parte, serve pure qualcuno che spieghi ai giovani che se oggi Sinn Féin e DUP, rispettivamente braccio politico dell’IRA e sostenitore della lotta armata protestante, stanno per inaugurare la prima stagione di amministrazione condivisa, una ragione c’è. Forse, è proprio l’esempio dell’Irlanda del Nord a far ben sperare per altri Paesi insanguinati da decenni, se non da secoli, di guerre intestine.

Se ministro per l’istruzione è Martin McGuinness, comandante operativo dell’IRA di Derry, e leader del partito di maggioranza è il reverendo Ian Paisley, ai cui infuocati discorsi si devono i pogrom cittadini che diedero il via alla vera guerra civile, i cosiddetti Troubles, non c’è da meravigliarsi di fronte all’abbondanza di storie thrilling e commoventi. Anche stavolta la finzione non riesce a superare la realtà.

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