"In Italia non ci sono più veri scrittori e veri poeti"

Così, nel 2019, bacchettava la cultura nostrana

"In Italia non ci sono più veri scrittori e veri poeti"

Capelli candidi, e l'anima di più ancora, elegantissimo nelle nuance delle pochette e nelle sfumature della scrittura, 83 anni, nato a Treviglio, cresciuto professionalmente a Verona e da mezzo secolo a Milano - terre esigenti e dure di cattolicesimo contadino, famigliare, conservatore - Cesare Cavalleri, scrittore e critico letterario, numerario dell'Opus Dei, dal 1965 è direttore delle Edizioni Ares e - record di durata per una testata italiana - della rivista Studi cattolici. Alle spalle ha una vita di letture, una magnifica vetrata del suo studio che dà sul Parco delle Basiliche a Milano («ora si chiamano Giardini Giovanni Paolo II...») e un cartello che dice molto di lui e del lavoro dell'editore: «Se davvero volete aiutarmi, vogliate passare i vostri consigli agli editori concorrenti»). Davanti a sé ha invece una parete con bigliettini e fotografie dei «suoi» pontefici e dei grandi scrittori incontrati (Buzzati, Eliot, Quasimodo...) e una parete di scaffali con i libri dedicati (Spadolini, Pampaloni, Bonura...).

Lei è il motore della casa editrice Ares, che pubblica 40 titoli l'anno. Scrive per Avvenire dal primo numero, nel '68. E dirige Studi cattolici. Siamo al numero 700. Auguri.

«Sono arrivato qui quando usciva il numero 46, nel gennaio 1965. E non mi sono più mosso».

E la rivista?

«La rivista sì che si è mossa. Si è trasformata coi tempi, ma mantenendosi fedele allo spirito originale: offrire una chiave di lettura delle cose che accadono nel mondo e nella cultura. Tanto più necessaria oggi in un'epoca in cui, travolti da un eccesso di informazioni, si fatica a trovare un ordine, delle gerarchie».

E la chiave di lettura è quella cattolica.

«Certo. Da cattolici lavoriamo nell'ottica di una ricerca e di una passione cristianamente ispirate ai temi del Bello come rivelatore del Vero. In quanto all'aggettivo cattolico, be'... San Josemaría Escrivá diceva che era inutile rimarcare la radice confessionale della rivista. E in effetti quel cattolici dà più fastidio a noi che ai non cattolici, i quali anzi ci dicono: Fate bene. Così si sa subito chi siete!».

Lei per anni ha seguito, recensito e criticato la letteratura e la poesia italiane. Che peso hanno oggi?

«La letteratura italiana nel mondo conta nulla. Dopo Italo Calvino e la sua generazione, che a me neppure piace particolarmente, non c'è stato più niente. Per altro la forma romanzo non è tipica della tradizione letteraria italiana, ma di quella anglosassone. I nostri sono racconti che tiriamo a 200 e più pagine per poterli chiamare romanzi. Ma mancano del tutto l'intreccio romanzesco e la creatività che distingue un romanziere da un compilatore».

I nostri scrittori sono compilatori?

«Ma sì...

Non se ne può più dei romanzi sull'infanzia, la famiglia, la madre, il racconto intimistico... Ma chi se ne frega. Stessa cosa la poesia. Quando sento parlare di poesia narrativa mi irrigidisco. Questi non sono veri scrittori, non sono veri poeti».

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