Jean Cau la penna "indocile" che ha raccontato la Francia

Una biografia fa rivivere il talento di questo super reporter, figlio del popolo, legato a Sartre, ma nemico della sinistra al caviale

Jean Cau la penna "indocile" che ha raccontato la Francia

La miglior definizione di Jean Cau, di cui ora Gallimard pubblica un'interessante biografia, scritta da Ludovic Marino e Louis Michaud (L'indocile, 334 pagine, 21,50 euro), è di Jean Cau stesso: «Politicamente non sto da nessuna parte, sto altrove, ovvero in libertà. Non milito, i militanti sono come le spugne: aderiscono. Ebbene, io non aderisco. Sono un avventuriero. Preferisco essere un volteggiatore, coprire il fianco, piuttosto che marciare nel grosso della truppa».

Nato nel 1925, morto nel 1993, da vivo Jean Cau è stato protagonista in Francia di un'incredibile morte e resurrezione letteraria. A 35 anni aveva vinto il Goncourt, con un romanzo che più sartriano non si poteva, La pitié de Dieu, quattro prigionieri chiusi in cella a parlare, fra verità e menzogna, dei delitti per i quali sono stati condannati... Di Sartre, del resto, Cau era stato sino a pochi anni prima, e per quasi un decennio, il segretario: brigava la corrispondenza, teneva i conti, organizzava gli incontri, condivideva gli stessi luoghi e gli stessi compagni di pensiero. Giornalisticamente aveva esordito sempre nel sartriano Temps modernes e poi era passato in forza all'Express, divenendone una delle firme di punta e, secondo il giudizio comune, «il più brillante reporter della stampa francese».

L'Express era un settimanale nato ideologicamente a sinistra e però con la pretesa di essere al servizio della Verità, quella con la maiuscola, naturalmente, i fatti separati dalle opinioni, il modello anglosassone dei news magazine, Time, The Economist, del tedesco Der Spiegel, il giornalismo come «quarto potere» e «cane da guardia della democrazia». Un proustiano «coté de chez Verdurin» faceva di quel giornale un luogo di punta e di incontro intellettual-mondano, il caviale della rivoluzione spalmato sulle tartine di una borghesia che per quanto a parole amasse il popolo non ne sopportava però l'odore, tantomeno il sudore.

Jean Cau invece veniva dal popolo, famiglia di origine contadina, del sud della Francia, padre operaio, madre donna delle pulizie, il primo e l'unico ad aver studiato sino al diploma per poi salire a Parigi per il concorso all'Ecole Normale.

È questa estrazione a dare un'unicità al suo stile, un tono tutto suo, aderente ai fatti e non alle teorie, una capacità di rendere le voci altrui, un certo gusto per loralità, il racconto intorno a un tavolo, davanti a un camino, la curiosità e la voglia di sperimentare e di conoscere. All'Express passerà dai paracadutisti agli studenti, dai comunisti alle 24 ore di Le Mans, da Mitterrand a Brigitte Bardot: «Non ci sono soggetti minori nel giornalismo, ci sono solo cattivi giornalisti». All'Express, Cau sarà il solo a fare lesatto contrario di ciò che Jean-Jacques Servan-Schreiber, il suo direttore, andava predicando: «Niente aggettivi, solo fatti, informazione, uno stile freddo».

Gli anni Sessanta sono quelli in cui si consuma il distacco fra Cau e la sinistra, anche se viene da chiedersi se fin dall'inizio non fosse stato tutto un equivoco. In fondo, a vent'anni, Cau era diventato sì il segretario di Sartre, ma soltanto perché Montherlant, Malraux, Gide gli avevano risposto di no, meglio, non gli avevano nemmeno risposto... Come un eroe di Balzac, quello che il giovane provinciale Cau cercava era un ingresso in letteratura che gli permettesse un tetto a Parigi e qualsiasi porta gli venisse aperta andava bene. È anche vero che inizialmente l'esistenzialismo di Sartre se è detestato a destra non trova ammiratori nella sinistra a trazione comunista: falso profeta, emblema filosofico di una borghesia malata è l'accusa. Ci vorrà, nel 1952, l'avvicinamento dello stesso Sartre al Partito comunista francese e l'apertura della sua rivista agli intellettuali comunisti perché l'inimicizia cessi. Tanto più Sartre oscilla, tanto più invece Cau recalcitra.

Alla base, fra Cau e la sinistra c'è una questione di incompatibilità pressoché fisica. I suoi intellettuali, si trova a constatare il primo, erano tutti di origine borghese: «C'era un che di nevrotico, un regolamento personale dei conti. Andavano verso il popolo perché non venivano da lì»... Un metro e ottanta, robusto, amante della boxe e della corrida, dei cibi semplici e delle parole dirette, Cau si accorge di avere «le mani troppo grosse le dita troppo spesse, i gesti troppo insofferenti per praticare insieme a loro il lifting sulla faccia rovinata del socialismo, aiutarli a limargli i denti, a dare forma al suo petto incavato e ad eliminare le borse da sbronza ideologica che aveva sotto gli occhi». Inoltre, trova sempre più irritante il suo coté da «indignati speciali», lo spirito e il settarismo da chiesa. Infine, lo disgusta quel sistema prét-à porter di idee e di temi, di ismi collaudati, di frasi fatte, di indignazioni e di giuste cause.

Con Le meurtre d'un enfant, uno dei suoi libri più belli, uscito nel 1965, Jean Cau celebra il suo distacco con quella sinistra di cui ha fatto parte senza esserne veramente stato parte. «Ragazzo, ho cercato l'adulto che mi dicesse: lì c'è l'Errore, lì la Verità. Fin al giorno in cui ho scoperto che non c'è verità e menzogna e che se io credevo agli uomini categorici che educavano la mia adolescenza, non era perché dicevano il Vero e il Falso, ma perché li ammiravo e li amavo...».

Negli anni a seguire Cau sarà la star di Paris Match, lo sceneggiatore di Borsalino, l'autore di pamphlet irriverenti contro la decadenza dell'Occidente, l'imperialismo culturale americano, la società dei consumi...

Croquis de memoire, uscito nel 1985 da Juillard, resta uno dei più brillanti esercizi di memoria del secolo scorso, mischiando ritratti di politici, Mitterrand, Pompidou, de Gaulle a camei di attori e di scrittori, Chaplin, Ava Gardner, Lacan, Camus, ricordi d'infanzia, descrizioni, confessioni, scritti con uno stile che non teme rivali, con una libertà che sa di gioia di vivere. Non a caso il libro si chiude con un affettuoso ritratto di Sartre: «Non gli devo niente, ma gli devo tutto».

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