JEFFERY DEAVER Caccia ai killer della democrazia

Ogni volta che esce un suo libro, cioè una volta l’anno, a Jeffery Deaver non par vero di fare le valige e di attraversare la penisola per promuoverlo. L’Italia gli piace e non riesce a resistere al richiamo del nostro cibo e del nostro vino bianco. Il mercato italiano è uno dei più fruttuosi per lui e i lettori italiani sono affezionati alle sue storie e ai suoi personaggi, al punto che, se si stancasse del suo investigatore tetraplegico Lincoln Rhyme e decidesse di toglierlo di torno, sarebbe costretto a bere il vino bianco della California, perché da noi scoppierebbe una mezza insurrezione popolare.
Ma Deaver, intelligente com’è, non farebbe una cosa del genere nemmeno se vivesse il doppio degli anni di Agatha Christie. Eppure la pignoleria da superuomo di Rhyme certo non è un tratto in cui il lettore medio ami immedesimarsi. Però Deaver sa che gran parte della sua fortuna la deve a questo inusuale investigatore, destinato, a dispetto dei critici più accesi dello scrittore dell’Illinois, a lasciare una traccia profonda nella tradizione del romanzo di genere. Jeffery Deaver è uno scrittore di un’onestà disarmante. Non vi verrà mai a dire di avere aspirazioni artistiche, ma non toccategli i suoi lettori. È per loro che scrive, forte della convinzione di sapere chi sono e che cosa si aspettano da lui. Questa è la sua migliore dote e, in un certo senso, il suo limite. Un anno fa aveva dichiarato che sarebbe presto uscita una nuova avventura di Lincoln Rhyme e Amelia Sachs, mente e braccio, e che stavolta sarebbe stata una lotta contro il tempo per salvare una ragazzina nera in pericolo di vita. La “strana coppia” avrebbe dovuto fare luce su un mistero avvenuto centoquaranta anni prima. Una promessa fatta da Deaver ai lettori è sacra.
Corre l’anno 1863. Per le strade di New York c’è un ex schiavo nero che ha combattuto da prode nella guerra civile, al punto da meritarsi una onorificenza militare, e che ora è inseguito da una folla inferocita e rischia di essere linciato e dunque si getta nelle torbide acque dell’Hudson per non emergere più. E poi c’è una ragazzina, studentessa modello in una scuola di Harlem dove le teenager, come dice Deaver, «rientravano in due categorie... C’erano quelle che spingevano carrozzine per la strada e quelle che non lo facevano». Anche lei è in fuga. Per le strade del degradato rione afroamericano ai margini settentrionali di Manhattan, circola un assassino che ha motivo di volerla morta.
A Deaver piace mescolare le carte, è il suo marchio di fabbrica, fatto di colpi di scena a ripetizione, identità nascoste e mendaci, in un costante crescendo di tensione che ha una soluzione finale (solo una?) sorprendente. Ma qui c’è poco da mescolare: la carta è solo una, La dodicesima carta, appunto, il nuovo romanzo uscito come sempre per Sonzogno (pagg. 481, euro 19). Una carta dei tarocchi che ci mostra un impiccato per i piedi dallo sguardo stranamente sereno, quasi sorridente. La dodicesima carta non indica la morte, bensì una sorta di ricerca spirituale. Ma non è l’esoterismo dei chiromanti il tema centrale del romanzo. Un tema centrale vero e proprio non c’è e il romanzo ne guadagna. A volte, uno dei limiti di Deaver sta nell’eccesso di esattezza, nell’esasperato lavoro di ricerca. In questo caso, l’autore si è potuto concentrare maggiormente sulla narrazione che, comunque, si avvale di una precisa ricostruzione storica.
Il nero in fuga per Manhattan - scena con cui si apre il romanzo - nasconde infatti un segreto. La polizia gli dà la caccia per il presunto furto di un tesoro ma sembra che l’ex schiavo nasconda qualcosa di più importante, qualcosa che avrebbe a che fare con il destino democratico della prima grande democrazia dell’occidente, gli Stati Uniti d’America. C’è gente pronta ad addossare a lui colpe che lui dichiara di non avere, solo per arrestare l’opera di consolidamento della democrazia a cui quell’uomo sta contribuendo. Mai sentito parlare del Quattordicesimo Emendamento? Nessuno Stato potrà approvare o sostenere una legge che limiti i privilegi o le immunità dei cittadini degli Stati Uniti. Forse Geneva, la ragazzina a sua volta in fuga e che, guarda caso, è una sua discendente, sa o ha visto qualcosa che qualcuno non vuole emerga e che ha proprio a che fare con la vicenda dell’antenato. Uno spietato killer, immancabile in un thriller che si rispetti, agisce con scrupolo scientifico e calma assoluta ma non è esente da errori.
Deaver, invece, di errori non ne commette. Dispensa colpi di scena, come suo solito. Un paio davvero gustosi e credibili. Non mancano le solite lavagne che aiutano Rhyme e i lettori a fare il punto della situazione e i serrati dialoghi tra i protagonisti, in questo caso ravvivati dal frasario giovanile di Geneva e dei suoi amici. I saltuari rimandi al liberto Charles Singleton danno la stura a brevi digressioni sulla condizione dei neri e sulla storia del movimento per i diritti civili. E certo efficaci sono le descrizioni di un quartiere come quello di Harlem e della sua gente che Deaver conosce bene. Il romanzo inizialmente si sarebbe dovuto intitolare Gallows’ Heights (La collina del patibolo), dal nome di una delle vecchie località di Manhattan in cui la vicenda si svolge, ma evidentemente l’idea di mischiare le carte, come si diceva, ha prevalso ancora una volta nel maestro della suspense.
Le scene d’azione si susseguono a quelle in cui è l’elaborazione razionale di Lincoln Rhyme a prevalere. E Rhyme è alle prese non solo con l’inafferrabilità dell’assassino ma anche con il dilemma se sottoporsi a nuove cure per la sua condizione di tetraplegico oppure se accettare la dura realtà.

Non a caso, la commossa dedica di apertura è a Christopher Reeve, indimenticato Superman del cinema, «esempio di coraggio... simbolo di speranza». Rhyme ce la farà. I lettori possono dormire sonni tranquilli. Sempre che non decidano di leggere La dodicesima carta.

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