Castelvecchi prosegue nella benemerita pubblicazione delle opere di Klaus Mann (1906-1949), il famoso figlio del troppo famoso padre, Thomas. La nuova opera è Fuga al Nord (pagg. 212, euro 20, traduzione e cura di Massimo Ferraris), il primo romanzo dell'esilio, pubblicato nel 1934. La fuga dalla Germania rappresenta lo sfondo tragico del racconto, per altro esile, ma non è la trama ciò che più conta, bensì i paesaggi interiori dei personaggi.
Si narra di una giovane berlinese, Johanna, militante comunista, più amante che partigiana, che ha abbandonato la Germania ormai in mano ai nazisti, per rifugiarsi in Finlandia presso una amica, Karin, e la sua famiglia, nella immensa tenuta in mezzo ai boschi, con un lago - uno dei mille del Paese - in una signorile residenza patrizia. Dopo un incontro molto ravvicinato con l'amica, Johanna s'innamora quasi perdutamente del fratello maggiore Ragnar. Quasi perché su lei grava il dramma della Germania. Il fratello lavora a Parigi a organizzare clandestinamente la resistenza al regime e nei messaggi le ricorda l'imperativo della lotta. Ma appare Ragnar, il bel fratello di Karin, che con la sua robusta fisicità, con il suo estroso fascino erotico, conquista subito Johanna. Pur comprendendo quanto sia importante la politica per l'amica, lui rimane radicato nella fede del carpe diem: «Noi siamo qui. E siamo qui solo una volta, e questa volta non tornerà più. Chi ci risarcirà se perdiamo quest'occasione, qui e ora? Questa è la realtà, Johanna, la nostra realtà, non puoi non sentirlo». E sì, lei sente (e cede volentieri), ma sente anche l'altro richiamo, quello prioritario per l'impegno politico. Per questo il loro è un amore impossibile destinato alla separazione.
La storia non permette la felicità individuale, come commenta la voce fuori campo del narratore (caratteristico motivo stilistico di Klaus) che amaramente conclude: «E invece dei baci non avete più, l'uno per l'altra, che singhiozzi silenziosi, e ciascuno è rivolto alla bocca disperatamente chiusa dell'altro». La disperazione è il fil rouge che traversa il racconto e che torna insistente a segnare la vita di Ragnar: «Passò sul suo viso un'ombra di disperazione». E ancora: Ragnar si era lanciato «in una nuova avventura, dolce e disperata». Il giovane è forte e stravagante, indossa preferibilmente «una vestaglia lunga quasi fino ai piedi, di una grossolana molteplicità di colori e al contempo di una solennità ecclesiastica, con motivi rosso vivo, oro e nero e maniche ampie, decorata». Questa raffigurazione richiama un piglio anticonformista e ribelle nella mollezza, nella libertà e nell'intrepida imprevedibilità come quella anarchica della «Disperata» di Guido Keller nella Fiume di Gabriele d'Annunzio.
Ma il romanzo scade sovente in un manierismo sentimentale che rievoca più Pitigrilli che il vate del Fuoco. Sorprendono queste ingenuità stilistiche in Klaus Mann che proprio in quei mesi dichiarava tutta la sua ammirazione per Gottfried Benn per la sua audace scrittura sperimentale. Ma di avanguardia e di espressionismo non c'è alcuna traccia in Fuga al Nord. La scrittura in Klaus Mann, sempre corriva, sa creare situazioni continuamente mutevoli anche se resta grave, sullo sfondo, la tragedia tedesca in questo racconto che dimostra una straordinaria percezione degli eventi storici. Klaus aveva appena 28 anni e aveva già composto romanzi e drammi che avevano sollevato grande scalpore. Fuga al Nord ripropone sapientemente i noti elementi: molto eros, diffuso sentimentalismo, ricorrente indugio sulla descrizione di paesaggi - qui quelli nordici - e un continuo confronto con l'attualità politica. Inoltre Klaus già nel 1934 prevedeva che il nazismo sarebbe stato abbattuto solo con una nuova guerra mondiale e che la Germania, una volta sconfitta, «deve essere fatta a pezzi».
Con questo romanzo Klaus si afferma come
uno dei principali intellettuali dell'emigrazione, ma, nel disperato groviglio tra storia, politica e sentimenti, la sua verità poetica è nel decadentismo dell'eros. Non si è invano figlio dell'autore di La morte a Venezia.
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