Su tutti i grandi giornali si leggeva ieri che il sistema dell'informazione starebbe censurando Marco Follini. Questo paradosso giornalistico ricorda un'antica vignetta del New Yorker dov'erano disegnati decine di giovani tutti vestiti a fiori, con codino e sandali uguali e tutti con un cartello di protesta con su scritto: «Abbasso il conformismo». Il segretario dell'Udc, cocco dei media, non convince quando denuncia discriminazioni o sgrida anche il Tg3 (come peraltro ha fatto pure Romano Prodi) perché non dà spazio a un comunicato dell'europarlamentare Lorenzo Cesa.
In effetti motivi di lamentela con settori della grande stampa il leader centrista ne ha: dopo averlo usato per logorare Silvio Berlusconi, ora offrono più attenzione a Francesco Rutelli che a lui. Ma è naturale: da una parte il leader della Margherita prende impegnative posizioni di merito e non si avvoltola solo in faccende politichesi, dall'altra chi sceglie una sponda per futuri rapporti di potere punta sui possibili vincenti.
Ma nel merito l'agitazione di Follini è incomprensibile: è stato proprio lui a confessare all'Avvenire di essere pronto a fare un passo indietro. Tutti possono capire che in fine di legislatura, di fronte a decisioni difficili, i politici siano tesi. Però sarebbe utile che i confronti anche aspri si sviluppassero nella chiarezza. Prendiamo la riforma del sistema elettorale in senso proporzionale. Solo qualche settimana fa Follini aveva detto che questa riforma era irrinunciabile per convivere nella Casa delle libertà. Aveva detto anche che su sistema proporzionale e nuova premiership non poteva finire 2 a 0 per Berlusconi, facendo dunque intendere un possibile scambio tra le due richieste. Non si ricordano accenni, invece, all'esigenza che la riforma del voto dovesse a ogni costo avere il via libera dell'opposizione. Questo percorso ora viene dimenticato: e i leader del centrodestra che accedono a una richiesta (con qualche tono ultimativo) dell'Udc vengono descritti come lottatori tatuati alla ricerca della rissa.
In realtà, molte prese di posizione appaiono diversivi per evitare di rispondere alla questione decisiva se il centrodestra, pur con i suoi limiti, abbia ancora una funzione da svolgere nell'interesse del Paese, o se invece è meglio che il ruolo di guida dell'Italia sia assunto dal centrosinistra. In questi dieci anni alcuni, nel centrodestra, sono giunti alla seconda conclusione: da Clemente Mastella a Mauro Verzaschi. La politica non è un matrimonio che chiede anni per divorziare.
Ma se si pensa che invece il centrodestra abbia ancora carte da giocare, allora la cosa più incomprensibile è l'autolesionismo, il portare le contraddizioni a livelli insopportabili, a rendere invisa la coalizione per la sua litigiosità.
Al fondo l'Udc è orgogliosa di rappresentare un ceto politico di qualità, pur con non forti radici sociali e programmatiche (su molti temi, si consideri per esempio la vicenda Fazio, i centristi offrono almeno due, spesso contrapposte, soluzioni), ma con tanta esperienza «accumulata», e vuole che questa «qualità» trovi il modo di esprimersi nel centrodestra. Non è una richiesta infondata e l'idea del partito unitario del centrodestra (da An all'Udc a Forza Italia) è un modo per rispondere a questa esigenza.
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