Con il suo nuovo libro Conquista. La distruzione degli indios americani (il Mulino, pagg. 335, euro 24), Massimo Livi Bacci, forse il più prestigioso tra i demografi italiani, affronta uno dei temi più controversi della demografia: il crollo della popolazione indigena delle Americhe, che dal momento del contatto, nel giro di circa un secolo, si contrae, più o meno, nel rapporto di 10 a 1.
Lautore lo fa rielaborando dati in gran parte già pubblicati e incrociandoli con unestesa lettura delle fonti etnostoriche. Loperazione è indubbiamente utile e interessante, tanto più che il libro è arricchito da un ricco apparato iconografico tratto da opere (la Nueva corónica y buen gobierno, il Codice fiorentino, il Codice Mendoza) che pur non avendo nulla a che fare con la demografia creano unaccattivante cornice che finisce per sedurre il lettore non specialista e non solo (incredibilmente La Repubblica ha riservato ben due recensioni al libro, la seconda, in gran parte dedicata alle immagini, gridava vendetta sia per un improbabile, infondato ed etnocentrico confronto fra le atrocità degli Spagnoli e quelle degli Aztechi, sia per il cattivo gusto di chi scopre liconografia indigena solo quando è utilizzata per fare colore).
Al centro dellanalisi dellautore sono quattro aree che rappresentano i momenti significativi e più importanti delle dinamiche demografiche del mondo indiano: le Grandi Antille, il Messico, il Perù e larea delle riduzioni gesuitiche del Paraguay. La tesi centrale di Livi Bacci, pur espressa con tutte le cautele che impone largomento, è che il crollo demografico non fu solo o in grandissima parte provocato dallarrivo in America di nuove malattie (vaiolo, morbillo, malaria, ecc.), ma anche, e in misura molto significativa, dalla violenza stessa della Conquista. Anzi il libro mette in evidenza il ruolo di primo piano avuto in questo processo sia dalle campagne militari, sia dalla distruzione delle basi socio-economiche di modelli di vita secolari, sia dalla costruzione di una società basata sulloppressione dellintera popolazione indigena.
Nel complesso lanalisi di Livi Bacci appare piuttosto convincente, soprattutto dove prende in esame le modalità dellarrivo del vaiolo in America (e questa è sicuramente una delle parti più nuove e originali del libro) e dove mostra di essere sempre ben consapevole della complessità della questione e della debolezza dei modelli ideologici alla Las Casas. Inoltre non si può negare che in tempi in cui il confronto-scontro con l«altro» è diventato di estrema attualità (ieri si esportava la religione, oggi si esporta la democrazia) la consapevolezza dei crimini e dei genocidi di cui è costellata la costruzione della supremazia occidentale è certamente utilissima, sia per evitare nuove tragedie, sia perché nellAmerica Latina le conseguenza della Conquista sono ferite ancora aperte e pronte a esplodere.
Il punto, però, è che la tesi del libro, per quanto corretta e condivisibile, qua e là appare un po debole tanto dal punto di vista storico quanto da quello demografico. A parte, infatti, alcune leggerezze (Atahuallpa viene catturato il 16 e non il 15 novembre; si fa scrivere a Guaman Poma una parola, corvé, che non solo lautore indiano non poteva conoscere, ma che proprio non compare nel passo citato; nel caso del Messico si ignora che i massacri della conquista della Huaxteca e dellOccidente ebbero conseguenze sul piano demografico molto più gravi della guerra per Tenochtitlan), nel libro si sente la mancanza di quegli approfondimenti che avrebbero dato più forza allanalisi di Livi Bacci. A partire da un uso più accorto delle fonti (tanto quelle antiche quanto quelle moderne), che spesso vengono citate senza fare lindispensabile distinzione tra chi è più affidabile e chi lo è meno.
Nel caso del Messico e del Perù, inoltre, osservando che le zone costiere, in cui gli Spagnoli vennero accolti come dei liberatori, sembrano spopolarsi più rapidamente degli altipiani, si ipotizza, molto probabilmente a ragione, che il fenomeno sia dovuto a una maggiore virulenza degli agenti patogeni importati. Il modello, però, non viene sostenuto da adeguate ricerche e da dati epidemiologici che potrebbero suffragarlo, né, per altro, viene incrociato coi dati archeologici ed etnostorici delle regioni degli altipiani in cui si verificò la stessa situazione.
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