Mobbing al Secolo d’Italia di Gianfranco Fini. In una sentenza sulle molestie a una bella ragazza assunta nell’ex quotidiano di An si parla anche del presidente della Camera. Che compare nel dispositivo della terza sezione del Tribunale del Lavoro di Roma nella sua veste di ex legale rappresentante del quotidiano di partito citato in giudizio assieme con Luciano Dottori, impiegato dell’ufficio Diffusione del giornale, dalla collega Silvia Costa che era stata licenziata dal partito dopo una serie di ingiustificate assenze per malattia. Una malattia che ora i giudici hanno riconosciuto essere «conseguenza dello stato di mobbing subito in ambito lavorativo». Risultato: licenziamento annullato e risarcimento dei danni per la poveretta costretta, suo malgrado, a sopportare lungamente le pesanti avances del capo ufficio denunciate, invano, anche per iscritto ai vertici del partito (in particolare all’onorevole Donato Lamorte). Espliciti apprezzamenti sessuali, umiliazioni, volgarità di ogni genere, minacce: impossibile fare finta di niente, inevitabile mettersi in malattia per sfuggire alle angherie di quell’uomo che era solito chiudere a chiave la porta dell’ufficio Diffusione.
E Fini in tutto ciò che c’entra? Ovviamente nulla con le molestie. Ma come «datore di lavoro» del futuro molestatore ha preso totalmente le difese di quest’ultimo allorché la donna ha deciso di ribellarsi alle angherie: «Con un’unica memoria difensiva – scrive il giudice – si costituivano ritualmente in causa entrambi i convenuti, l’onorevole Gianfranco Fini, titolare e proprietario della ditta Secolo d’Italia, e D. Luciano, contestando le allegazioni avversarie (...) e l’effettiva sussistenza degli asseriti fatti vessatori, la loro astratta idoneità a realizzare ipotesi di mobbing, l’effettiva sussistenza dei danni lamentati, la quantificazione di essi e il nesso eziologico tra eventuali danni e le condizioni di lavoro e ne chiedevano il rigetto in quanto infondata». È andata come vi abbiamo detto, e se Fini quale proprietario/datore di lavoro alla fine non risulta fra i condannati in solido è perché «nelle more del processo si costituiva la società Secolo d’Italia srl succeduta a titolo universale alla ditta Secolo d’Italia di Gianfranco Fini». Per il giudice, insomma, «a fronte della condotta in essere dal proprio dipendente, discende la responsabilità del datore di lavoro per la perseverante noncuranza osservata riguardo alle richieste di essere spostata e collocata in altro ufficio più volte reiterate dalla ricorrente all’indirizzo della responsabile dell’amministrazione del giornale e dell’onorevole Lamorte». E così, senza qualcuno che gli intimasse di farla finita, il dipendente stalker avrebbe dato libero sfogo alla sua fissazione per l’affascinante collega. I testimoni hanno raccontato che «le indirizzava pressioni per “portarla a letto”, che “voleva fare sesso con lei”, che “si sedeva accanto a lei, l’abbracciava, la stringeva”». Qualcuno ha raccontato «che la Costa lo respingeva e arrossiva e lui diceva che “non poteva stare accanto a una donna così bella senza toccarla”…».
Perizie mediche e testimonianze hanno convinto il giudice sulla comprovata «sussistenza di una condotta vessatoria reiterata posta in essere nei confronti della Costa in un rilevante periodo che va dal 1996 al 2002 e mirata ad emarginare ed allontanare la prestatrice dal luogo di lavoro». Nessun credito è stato dato alla tesi difensiva che si «trattava di scherzi e goliardate». Per il Tribunale la dipendente è stata «mobbizzata» e deve essere reintegrata al lavoro e risarcita con 140mila euro.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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