L’impietosa analisi dell’operaio poliziotto

In «Abbiamo Quaranta Fucili Compagno Colonnello» Sándor Kopácsi racconta i primi segni del crollo del comunismo

«Avevo trent’anni. Alle tre del mattino, solo nel mio ufficio, con i gomiti sulle ginocchia, la testa tra le mani, con la divisa sgualcita, stavo piangendo. Era morto Stalin». Sembrerebbe l’inizio perfetto di un romanzo che ha per tema la dolorosa disintegrazione di un sogno, ma Abbiamo Quaranta Fucili Compagno Colonnello (Edizioni e/o, pagg. 419, euro 16) comincia molto tempo dopo la scomparsa di Stalin, per poi ripercorrere a ritroso le tappe dei primi segni di sgretolamento mostrati dal monolite del comunismo reale. L’autore è il protagonista narrante e ci fornisce un resoconto della rivolta di Budapest del 1956 con un trasporto che una cronaca storica difficilmente riuscirebbe ad avere.
Quando le truppe sovietiche irrompono in Ungheria sul finire del 1944, Sándor Kopácsi è un operaio di salde convinzioni comuniste. La sua militanza gli consente di bruciare le tappe della carriera in polizia e, quando i primi movimenti di piazza scuotono Budapest, lui ne è testimone attivo nei panni del questore della città e si segnala per una dichiarazione pubblica in cui rassicura i manifestanti che non avrebbe sparato sulla folla, divenendone una sorta di eroe in divisa. E di divise ce ne scorrono tante davanti agli occhi in quella che è una torrenziale ma sempre lucida esposizione di fatti, emozioni e personaggi. Stalin, appunto, Kruscev, Berja, Molotov, Malenkov, Tito, Nagy, Rákosi, Kádár, Andropov, Maléter, Breznev. Tutti sanno come andò a finire, tutti sanno della condanna a morte di Nagy e di Maléter, fra gli altri, ma la conoscenza della storia non toglie suspense al racconto. Ai fini narrativi, non fa nessuna differenza sapere sin dalla prima pagina che l’Armata Rossa infrangerà il sogno proibito di un socialismo svincolato dalla casa Russia e dalle pastoie della più bieca ideologia. La vicenda umana dell’autore e lo scenario collettivo della rivolta si fondono magistralmente. Fortuna che a Kopácsi, dopo indicibili pene, fu concesso il visto di espatrio in Canada, dove abitava la figlia e dove diede alle stampe questo documento illuminante.
Quella di Kopácsi è l’impietosa analisi di come un’idea per la quale milioni di persone avevano dato la vita si sia potuta trasformare nella sistematica cancellazione del libero pensiero, all’interno di un sistema retto da burocrati corrotti e cicisbei in divisa e fondato sulla paura, le epurazioni, le delazioni, la tortura e i processi farsa, in nome dell’infallibilità dei dogmi del partito.
È per affrancarsi da quell’oscurantismo di regime che la popolazione ungherese scende in piazza e rivendica il diritto all’autodeterminazione, senza peraltro abiurare del tutto il marxismo. Ed è anche nella fragile e arrogante convinzione di poter dare l’esempio a livello internazionale e di poter salvare il salvabile che i carri armati sovietici calpestano migliaia di ungheresi e, con essi, i loro diritti inviolabili. Questione di anni. Il germe della libertà si sarebbe propagato a tutta l’Europa orientale, fino al crollo del muro di Berlino.
L’insurrezione di Budapest dell’ottobre del 1956 resta una ferita aperta nel cuore della sinistra italiana, il primo vero scossone a certezze fino a quel momento considerate in discussione.

All’indomani dei moti di piazza che hanno messo a rischio la stabilità dell’Ungheria, il libro di Kopácsi è quanto mai attuale e illuminante, ben più di un romanzo storico o di un saggio storico esposto in una prosa suggestiva.

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