L’UNIONE DEI CONSERVATORI

Il dibattito che si è aperto in seno al centrosinistra sulla necessità di dialogare con il centrodestra per fare le riforme costituzionali è soltanto un espediente retorico, un autentico falso politico. La frammentata maggioranza che si blinda in Parlamento violando i diritti dell’opposizione (e i tumulti di ieri in Senato dimostrano quanto sia grave lo strappo alla legalità repubblicana) non può esprimere alcuna volontà riformistica, anche se alcune sue marginali – nei fatti – componenti s’illudono, magari in buona fede, di poter compiere lo sforzo in cui si sono consumati decenni di vaniloquio politico. Non può farlo per motivi storici, ideologici, di tattica partitocratica.
Cominciamo dalla storia. Non è senza significato che l’occupazione degli spazi istituzionali si sia consumata, da parte dell’armata (si fa per dire) prodiana, scegliendo uomini che sono icone del passato e della conservazione, della fragilità e della instabilità primorepubblicana. Franco Marini e Fausto Bertinotti sono i rappresentanti riciclati di quel pansindacalismo che tanti danni strutturali ha provocato al sistema Italia, condizionandone lo sviluppo, negli anni Sessanta e Settanta. Sono stati sconfitti dall’evoluzione della società nazionale, ma ripescati da un moto restauratore e non si comprende perché dovrebbero smentire se stessi, le proprie convinzioni e inclinazioni in nome di riforme delle quali non hanno mai avvertito il bisogno. Giorgio Napolitano viene da lontano, da troppo lontano per sentire profondamente la necessità di ammodernare le strutture istituzionali del Paese. Anche lui è stato condannato dalla storia e amnistiato dalla volontà restauratrice di Prodi. È legittimamente segnato dall’esperienza della Costituente: perché dovrebbe impegnarsi per favorire il superamento di quell’evento esaltante, almeno per lui? Insomma, le massime cariche dello Stato sembrano scelte per mummificare la Costituzione, non per adeguarla ai tempi.
C’è anche l’ideologia. Nella coalizione debolmente guidata dal Professore sono parecchi gli esponenti che non darebbero un soldo per rafforzare l’esecutivo e per consolidare il giovane e gracile bipolarismo italiano. Della Costituzione vigente piace a molti la «centralità del Parlamento». Piace l’accentuazione assembleare che trova nel bicameralismo perfetto la sua esaltazione. Piace il senso del sinedrio, che riceve il mandato popolare e lo amministra con superiore saggezza: i cittadini (o sudditi?) vanno guidati, anche per il loro bene.
E l’ideologia condiziona le tattiche partitiche. Piccole formazioni che hanno fatto del diritto di veto (o vogliamo chiamarlo ricatto?) la loro forza d’urto preferiscono un primo ministro, o premier, fragile, di debole costituzione, che non possa nominare e revocare i ministri, che sia instabile e sfiancabile con trattative protratte, inaudite.
A tutti questi politici di vecchia scuola, addestrati all’assalto alla diligenza in occasione di ogni legge finanziaria, la Costituzione vigente va benissimo così com’è. Ed è anche sciocco sperare che lietamente si castrino da soli. E pazienza se l’Italia dovrà affrontare le sfide globali del nuovo secolo con gli strumenti di sessant’anni fa.
Attenzione. L’avversione alle riforme ha i suoi adepti anche nel centrodestra.

L’Udc – che può anche tradursi in Unione dei Conservatori – non ha mai creduto fino in fondo al bipolarismo e non vede l’ora, probabilmente, di rimescolare le carte grazie alla centralità del Parlamento che tutto dovrebbe giustificare. Centralità che è parente del grande centro, mitico e lontano, ma evocato in tutte le sedute spiritiche.

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