L’uomo che occulta gli spot nei film: «Ecco i miei messaggi a tradimento»

I trucchi di Francesco Brambilla per fare pubblicità nelle pellicole. «Sogno di lavorare con Lynch. Ma lui no»

Woody Allen che impugna il volante stretto stretto e guida frenetico una monovolume su una strada inglese non se lo scorda nessuno. La scena finale di Scoop ha due protagonisti: lui e l’auto, in simbiosi perfetta, tanto da finire schiantati contro un albero. Qualche purista si è indispettito per il risalto garantito al marchio, ma alcuni no. Persone che di mestiere studiano come fare pubblicità a un prodotto piazzandolo nella trama di un film (in termini tecnici si chiama product placement) e che avrebbero fatto di tutto per lavorare con il regista americano, magari con la soddisfazione di avergli «suggerito» l’automobile giusta al momento giusto.
Uno di loro è Francesco Brambilla, movie placement copywriter di Camelot, agenzia specializzata per il cinema italiano: scruta le sceneggiature dei film per scoprire dove si nasconde uno spazio per un cellulare, un orologio, una borsetta, una bibita, una penna e poi fa la sua proposta, all’azienda del marchio e al produttore della pellicola. L’accordo passa poi per registi, sceneggiatori e costumisti: se la scena «in più» funziona per tutti, allora finirà sugli schermi. Sotto gli occhi di tutti, spettatori più o meno infastiditi dallo spot inserito nella storia. Lui assicura che il placement «fatto bene» non disturbi (dell’argomento parlerà oggi a Venezia, in occasione di una tavola rotonda organizzata da Camelot e dalla Fondazione ente per lo spettacolo): «Il trucco è non esagerare, né con le inquadrature troppo ravvicinate né con la ripetizione del nome del marchio. E, soprattutto, il prodotto deve svolgere un ruolo nella trama, così che sembri davvero indispensabile». Ci sono esempi celebri, innanzitutto nei film made in Usa, visto che, in Italia, fino alla legge Urbani del 2004 la pratica era vietata. La madre di tutte le pubblicità «occulte» è E.T.: l’alieno è attirato in casa dai ragazzi grazie a delle caramelle. Il grande successo al botteghino viaggia in parallelo con le vendite delle Reese’s pieces che, in poche settimane, aumentano dell’80 per cento. L’altro caso da manuale è Cast Away, dove il naufrago Tom Hanks trova un amico nel pallone «Wilson»: inquadrato e coccolato per tutto il film, viene addirittura invocato nel momento in cui è inghiottito dalle onde. «Da spettatore non me n’ero neppure accorto - giura Brambilla - è il placement che ho più invidiato: chi l’ha fatto è un vero genio del male, il pallone è addirittura il coprotagonista».
Pubblicità, ma solo qua e là. Anche se ci sono pellicole in cui i marchi si susseguono: il Codice da Vinci (automobili, palmari, cellulari e - qualcuno insinua - persino il Louvre, dove si sono moltiplicati i visitatori, già numerosi), la saga di 007 (auto, orologi, compagnie aeree e il classico Martini) o quella futuristica di Mission: Impossible. Ci sono prodotti più ovvii: cibi e bevande, perché bere o mangiare fa parte della quotidianità, telefonini e, sempre più, oggetti di lusso (borsette, orologi e gioielli).
In Italia è stato Quo vadis, baby? di Salvatores a inaugurare la tendenza: «Il telefonino compare in maniera quasi naturale: la detective deve immortalare due amanti, ma la macchina fotografica si incastra nel sedile dell’auto. Così, per scattare la foto, ricorre al cellulare». In Commediasexy di D’Alatri è il personaggio controcorrente di Sergio Rubini a ispirare il legame con il chinotto che chiede al bancone. «Devi creare sorpresa nello spettatore: un equilibrio fra eccesso e invisibilità». Per cui anche un’auto diventa difficile da far notare quando, in un film, ce ne sono un’altra decina. Niente, però, a confronto con una banca, una compagnia di assicurazioni o marchi sconosciuti (e quindi difficili da ricordare).

La vera sfida? «Pubblicizzare una vernice: ci abbiamo provato, ma senza riuscirci. Perché se entri in un negozio e la compri non si nota neppure: devi usarla per dipingere un’opera o una parete. Ma il mio vero sogno sarebbe lavorare per David Lynch». Lui accetterebbe? «Mai».

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