Lo spirito battagliero e la ricerca di una pittura calda di vita caratterizzano l'opera di Luigi Bartolini, in una appassionata esperienza che attraversa il tempo del Fascismo e gli anni successivi fino alla sua morte nel 1963, e che gli anni non mutano, sia nella pittura sia nella universalmente riconosciuta attività grafica. E le sue parole sono rivelatrici: «Il mio amore per la pittura è stato sempre il più profondo dei miei amori, compreso anche quello per le acqueforti, anche quello per la letteratura, e, purtroppo, anche quello per le polemiche».
A riconoscerlo, con una originale considerazione della sua opera, fu Gio Ponti, che nel 1942 manifestò una insofferenza che appare quanto mai attuale alla luce della presenza italiana alla Biennale di Venezia. L'architetto milanese, sulla rivista Stile, ne scrisse la decisiva recensione «L'arte italiana è superiore a quale appare alla Biennale di Venezia», criticando la mostra e molti degli artisti invitati a rappresentare l'Italia, espressione di uno spirito conservatore assai lontano dalla contemporaneità. Proprio a questa visione Ponti contrapponeva la pittura di Bartolini, insieme a quella di Casorati e alla scultura di Arturo Martini. Delle opere esposte nella sala del marchigiano, Ponti indicava La selvatica, Le pere, Ragazze romane e Donna alla fontana di temperatura tale da fargli «sciogliere il cuore ad una completa ammirazione», auspicando che l'Italia attribuisse finalmente a Bartolini il meritato riconoscimento, anche a costo di sopportarne «le bizze letterarie continue». La stima di Ponti per Bartolini è testimoniata dagli articoli e dalle riproduzioni di dipinti pubblicati in alcuni numeri di Stile e anche dalla corrispondenza nell'archivio dell'artista. Quando, nel marzo del 1942, il pittore scrisse una delle sue lettere polemiche, Ponti gli rispose con tono invitandolo a proseguire nella sua ricerca e ricordandogli che «la pittura si combatte con la pittura».
Il sostegno dell'architetto contribuì all'affermazione di Bartolini pittore, la cui presenza fu garantita anche dopo la Biennale del 1942. Alla Quadriennale del 1943, il suo espressionismo si contrappose alle posizioni più conservatrici della pittura italiana. Bartolini fu, ed è universalmente riconosciuto, un grande incisore. E il suo primato è in una impulsiva creatività e in una tecnica vertiginosa e paziente. La polemica frontale con il monacale Morandi impone un confronto fra i due artisti nel campo, perseguito da entrambi con ostinazione, della grafica, di ispirazione simile nei soggetti di paesaggi e di nature morte, ma opposta nel metodo. Monofonico quello di Morandi, polifonico quello di Bartolini. Disse bene della sua versatilità Giuseppe Marchiori: «Quel suo scrivere a confessione, e quasi a sfogo di sé; quel gusto per il diario lirico, contaminante un po' tutti i generi; quell'umore polemico, d'una polemica che coinvolge arte e morale e predilige modi da stroncature; quell'alacre impressionismo che sgretola e insieme rinnova le forme narrative tradizionali anche quando sembri passivamente accettarle; quella stessa pratica di altre arti oltre la letteraria; quell'aria brava, quello spirito da irregolare che pone la poesia e l'arte (con un fervore che ancora sente di romanticismo) a principio della creazione; infine quegli stessi residui di un verismo ottocentesco, ricondotti peraltro nell'ambito di una compiaciuta autobiografia; quell'amore alla natura e insieme al proprio io, che si traduce in un paesismo luminoso con il proprio autoritratto in filigrana».
Bartolini era espressionista, realista, mistico. Mai illustrativo, sempre emozionato. Poeta prima che pittore. Capace di far sentire il colore nel bianco e nero della incisione, intimamente policroma, oscuramente luminosa. Una bella prova della libertà e della indipendenza dell'artista è nelle parole del luminoso saggio Sul godere le mie acqueforti: «Dipingerò, dunque, quello che mi pare e piace, e che sortirà da me stesso ma inaspettato e nuovo: ma in quanto all'opera compiuta io la amo meglio e di più quando la metto al mondo che dopo che ce l'abbia messa e che mi pende, immobile, come il lumacone al ramo, alla parete. E soprattutto evitare, nel mio studio, un'assemblea di quadri, con tele che parlano vocine da monache cappuccine, e teloni che parlano con la bocca d'un obice da 305. Scompagnate voci sempre anche se sono del medesimo autore. Nelle medesime ventiquattro ore della giornata tra l'alba e il tramonto il mezzogiorno e la notte, il tempo buono o magari un improvviso guastarsi, o sciroccare funesto o lampeggiare guizzando, il fulmine, bieco di sera tra le strisce da lutto delle nuvole orizzontali, cangia le mie sensazioni. Ammettiamo dunque anche la presente incoerenza, nelle belle arti».
È arioso, libero il parlare, come il procedere grafico di Bartolini. Vive la sua opera come un corpo in continua crescita, che indica il contrasto tra la sua mente e il mondo. È un artista in rivolta che trova nella poesia la fonte per la sua ispirazione artistica. Sente e interpreta come nessuno Dino Campana, parla di sé raccontando lui e il suo aspro sentimento della vita: «Assomigliava, allora, ad un fiume in magra, un fiume dal letto sassoso e limaccioso. Anzi, rammento che giacendo egli in tale suo stato invernale, come quello della natura quando dorme, non se ne risollevava che o camminando per campagne e fiumi solitari, oppure per mezzo del peccato: ciò detto per chi crede che lo sfogo dei sensi sia peccato, anziché un vero e proprio far sortire gli umori cocenti infernali dalla propria macchina umana, o quelli che, in tal senso, si possono chiamare gli spiriti peccaminosi».
Così è la sua idea della natura, aspra e selvaggia, così la sua tensione nel rapporto con il mondo, così la solitudine delle sue lastre tormentate. Morandi domina il mondo, Bartolini lo soffre. Ho detto di Campana, per affinità di esaltazione, ma meglio potremmo dire che le incisioni di Bartolini sono l'equivalente figurativo della poesia di Leopardi, con analoga desolazione, con incontenibile tormento: suoi sono gli «interminati spazi», i «sovrumani silenzi», la «profondissima quïete». E come Leopardi ci ferisce con il suo dolore, così Bartolini ci trasmette ansia con le sue acqueforti: «Ma, alla parete, un quadro alla volta. Se basta, un disegno; meglio ancora un'acquaforte. Le acqueforti non vanno appese come baccalà alle pareti. Il loro effetto si perde nello spazio. Vanno viste piuttosto, come le vedeva Baudelaire, il povero angelo diseredato. Egli che non trovò al mondo la sua casa la sua compagna la sua terrazza la sua celletta bianca di calcina.
Baudelaire nelle brutte giornate o in quelle da semplice tempo cattivo si chiudeva rinserrato dove poteva o andava pei vicoli degli ebrei, nello spigolo rognoso di una qualche bottega da venditore di vecchie stampe, a contemplarle segnetto per segnetto, con la lente da ingrandimento. Vanno guardate, le belle stampe, non alla carlona, correndo con la fretta interessata d'un commesso viaggiatore delle Belle Arti, per le sale d'una esposizione».
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