La situazione media di un lavoratore italiano è quella di sfacchinare i primi sei mesi dell’anno per lo Stato e poi per se stesso. Circa metà del reddito che produce se ne va infatti in tasse. Grazie alla manovra Monti, che si somma a quelle estive del governo Berlusconi, la libertà degli italiani si restringe ora ancora di più. Un altro mesetto del proprio stipendio si volatilizza grazie ai nuovi balzelli e incrementi tariffari decisi dal governo. Cosa comporta tutto ciò?
Dal punto di vista strettamente politico, si può dire che la nostra libertà sia vigilata. Non spetta a noi decidere come impiegare il frutto del nostro lavoro. Sono le burocrazie statali che fanno le scelte per il nostro supposto «interesse e bene ». Le ore d’aria sono sempre meno. Non a caso il termine che si usa per descrivere coloro che si sottraggono a questo stato di cose è «evasione».C’è una certa tolleranza linguistica nei confronti della violazione delle norme fiscali: sarebbe corretto chiamarlo «furto». Ma evidentemente si è sedimentata nei secoli l’impressione che con le gabelle imposte dai sovrani si costruiscano delle ingiuste prigioni alla nostra libertà. Ecco spiegato il termine evasione.
Da un punto di vista individuale ed economico, la riduzione del reddito liberamente disponibile da parte dei cittadini agisce sul meccanismo degli incentivi. Chiunque lavori e percepisca un reddito mette in relazione il sacrificio del proprio tempo libero con il riconoscimento economico. Perché lavorare di più o meglio, quando il frutto del proprio lavoro non viene riconosciuto? Anzi, al contrario, più si lavora e più si paga pegno. Per rendere la società più giusta ed equa, potrebbe rispondere un illuminato pianificatore. Sì, certo. Resta il fatto che è difficile trovare un italiano che creda alla barzelletta di una burocrazia statale in grado di spendere bene la grande massa di quattrini che arriva dai privati. Ridurre l’incentivo a lavorare (e a intraprendere) è il modo migliore per fare appassire una società dinamica. Il drammatico fenomeno degli imprenditori che si uccidono testimonia come tra le pretese dello Stato e le ragioni della propria azienda e dipendenti, l’imprenditore in difficoltà non sia più in grado di fare una scelta. Se non quella di scomparire.
Da un punto di vista sociale, un’economia di finto mercato come la nostra è il massimo dell’ingiustizia. Si finge di vivere in un mondo competitivo, ma i riconoscimenti non sono basati sul merito della competizione. Ci spieghiamo meglio. Poiché gran parte del lavoro dei cittadini alimenta la macchina statale, è quest’ultima a gestire gran parte delle risorse prodotte. Il criterio con cui le redistribuisce (dopo averne trattenuta una buona fetta per fare i propri affari) è inevitabilmente politico e relazionale. Vince chi spiega meglio le proprie ragioni, chi è organizzato in maniera più efficiente per fare lobby, chi è in grado di interdire il regolare funzionamento del vivere civile, e non chi se lo merita maggiormente. La parola equità vuol dire assolutamente nulla. Gli economisti e i filosofi sono duecento anni che cercano di definirla inutilmente. L’equità risponde solo ad una arbitraria scelta politica.
E la cosa è tanto più ingiusta quanto maggiore è la fetta di risorse che un Paese alloca per fini equitativi. Il massimo dell’ingiustizia e dell’equità sarebbe quella di prelevare tutto a tutti e redistribuirlo secondo criteri appunto di «equità». Insomma una follia.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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