LARRY MCMURTRY Sentimenti di provincia

Esce «L’ultimo spettacolo», dal quale Peter Bogdanovich nel ’71 trasse un grande film che vinse due premi Oscar

Uno sconfinato cielo azzurro, punteggiato da nubi bianchissime e soffici, che distribuiscono ombre su piccole porzioni di prateria. Un cielo a pecorelle che la fa da padrone nel paesaggio del West. Quel cielo è sfondo e protagonista dell’universo letterario di uno dei più grandi narratori americani contemporanei, quel Larry McMurtry tornato alla ribalta internazionale nel marzo scorso con l’Oscar per la sceneggiatura di Brokeback Mountain.
Ma Larry McMurtry è prima di tutto un romanziere, anche se in Italia se ne sono scordati in molti. Classe 1936, texano doc e autore di una trentina di romanzi e saggi, si aggiudicò nell’86 il «Pulitzer» per Un volo di colombe, purtroppo fuori catalogo da troppi anni, una saga western di spessore narrativo e intensità umana straordinari, uno spaccato di un mondo rude, un affresco storico dai contorni crepuscolari, cui fa da sfondo un cupo pessimismo. Non è un caso, dunque, se McMurtry oggi torna sugli scaffali delle nostre librerie con un romanzo che di quel mal di vivere, di quella malinconia senza speranze è ammantato. L’ultimo spettacolo (Mattioli 1885, pagg. 300, euro 16), presentato in una suggestiva veste grafica, è una classica storia da provincia americana, con tanto di sala da biliardo, drive-in, cheer-leader e macchine decappottabili. Scritto in terza persona, ma raccontato come se tutto fosse filtrato dagli occhi di Sonny, il giovane protagonista, è un romanzo su un’America che per molti non c’è più, ma che nella sostanza non è cambiata tanto. Ambientato in Texas negli anni ’50, il libro racconta il tramonto del cinematografo come unico luogo di aggregazione, oltre alla sala dei biliardi, di una cittadina di provincia. Sonny e Duane sono amici per la pelle, anche se molto diversi. Sonny, orfano di madre e con un padre malato e distante, vive insieme a Billy, un ragazzo ritardato, nella stessa casa del vecchio Sam the Lion, il padrone della sala da biliardo, una specie di patriarca burbero e saggio. Duane è un po’ spaccone e frequenta la bella e ricca Jacy, la ragazza più ambita del circondario. Sonny invece esce con una ragazza bruttina e petulante. I due adolescenti, in realtà, vorrebbero avere dalle rispettive ragazze più di quanto sono disposte a concedere loro. Così Sonny, senza cercarlo, trova conforto tra le braccia della moglie trascurata del suo insegnante di ginnastica.
Questo romanzo, uscito in America nel 1966 (e proposto quest’anno sempre da Mattioli 1885), è il seguito ideale del libro d’esordio di McMurtry, quell’Hud il selvaggio che presto sarà disponibile anche in Italia. Sono entrambe storie così cinematografiche da sembrare sceneggiature da trasferire direttamente sullo schermo. Non a caso si dice che sia stato Francis Ford Coppola a opzionare il romanzo e a «regalarlo» a uno della sua cerchia di amici intimi. Pare che abbia esclamato: «Dobbiamo farci un film!». Fu infatti Peter Bogdanovich a trarre da L’ultimo spettacolo uno splendido film del ’71 in bianco e nero, scelta stilistica suggerita niente meno che da Orson Welles, con la partecipazione di due giovanissime star di Hollywood come Jeff Bridges e Cybill Shepherd, oltre che di uno degli attori preferiti di John Ford, Ben Johnson, il quale, nei panni di Sam the Lion, ottenne l’Oscar (un altro Oscar andò a Cloris Leachman, miglior attrice non protagonista, ma le nomination furono ben otto...).
Deve esserci un talento artistico, nel suo Dna, visto che suo figlio James ha pubblicato almeno un paio di ottimi dischi intimistici, uno dei quali, Too Long in the Wasteland, prodotto da John Mellencamp nel 1989 e salutato con grandi consensi di critica e di pubblico. Del resto, su questo come sugli altri libri di McMurtry aleggia lo spettro della grande tradizione musicale americana, quella dei vari Hank Williams, Ernest Tubb e Patsy Cline. È come se ci fosse una colonna sonora silenziosa.
Larry McMurtry è un uomo di poche parole, un figlio della sua terra. Solitario, burbero e gentiluomo al tempo stesso.
Signor McMurtry, la grande musica americana ha influito sulla sua formazione?
«Mio figlio James è musicista e il suo nono album è in uscita. Ma io non ho orecchio e non ricordo bene ciò che ascoltavo da giovane. Immagino, però, che si trattasse soprattutto di country».
I suoi libri mancano da molti anni nel nostro Paese. Conosce l’Italia?
«Ci sono stato diverse volte. Ho persino realizzato un film a Roma - o, per meglio dire, mi sono trovato lì per esercitare il mio ruolo di padre sul set. Il film era Daisy Miller, di Peter Bogdanovich, e mio figlio recitava il ruolo del fratellino di Cybill Shepherd».
Da L’ultimo spettacolo, così come da altri suoi romanzi, è stato tratto un bel film. Scrive sempre con il cinema in mente?
«Ho collaborato a molti film, ho scritto una settantina di sceneggiature. Non li vedo quasi mai e me li scordo rapidamente. Non ho una gran memoria. Faccio persino fatica a ricordarmi i miei primi romanzi, scritti quarant’anni fa. Ovvio che sia contento che alla gente piacciano, però io non ho ricordi molto vivi».
Lei ha più volte dichiarato che Virginia Woolf e Marcel Proust sono due dei suoi scrittori preferiti. Avrei detto che si fosse formato sui grandi narratori americani...


«I classici americani li ho letti oltre quarant’anni fa, ma per molto tempo ho letto soprattutto letteratura europea e libri di storia, in particolare quelli sulla Prima Guerra Mondiale».
Se dovesse suggerire a un giovane italiano qualche romanziere americano, chi sceglierebbe?
«Indicherei Theodore “Dri” Dreiser, Ernest Hemingway, William Faulkner, Flannery O’Connor».

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