Si può intuire quante volte mi sia stata rivolta la domanda: come scegliete i libri da pubblicare?
Le risposte che si danno di solito - tutte plausibili, in buona fede o addirittura vere - stanno nell'arco che va dai due estremi di «seguiamo il nostro gusto» a «interpretiamo le richieste del mercato», occupando tutte le posizioni intermedie e le sfumature possibili. Una variante intelligente, e anche questa verosimile, la sentii dire una volta da un mio collega e da allora confesso di avergliela rubata spesso. Più o meno dice così: un editor, certo, ha un gusto proprio e lo conserva, ma col tempo diventa una specie di «lettore plurale», per cui se legge un thriller, un giallo o un romanzo rosa, anche se un tempo, all'inizio della sua carriera di lettore professionale, non erano i suoi generi prediletti, immediatamente e con naturalezza diventa capace di calarsi nei panni degli appassionati e di giudicare, entusiasmandosi o respingendo, secondo la loro prospettiva.
Tutto vero, eppure. Eppure, ogni volta che devo raccontare come gli editori scelgono i libri (dopo aver sottolineato, naturalmente, il peso che nella scelta hanno la storia della casa editrice, le sue tradizioni, il suo catalogo, per cui un'opera può starci dentro oppure no) riconosco di provare un senso di disagio, come se mi nascondessi dietro luoghi comuni, per quanto formulati con tatto. Ho sempre l'impressione di ripararmi dietro quelle formule educate e rituali che gli editori usano nelle lettere di rifiuto che di solito si aprono incensando l'autore con false lodi, per poi, dopo un «purtroppo» di prammatica, arrivare alle ragioni reali del diniego. E tutto ciò che conta viene dopo l'avverbio, mentre quello che sta prima è pura formalità, come scriveva Giuseppe Pontiggia, che dei meccanismi editoriali, del dietro le quinte dei libri, del backstage del nostro lavoro è stato uno dei primi commentatori. Sempre originale, aforistico, tagliente.
Già, perché negli ultimi anni la curiosità e l'interesse verso il lavoro nelle case editrici sono cresciute enormemente e di conseguenza si è ampliata l'offerta per soddisfarle. Due notevoli libri, recenti e complementari, per saperne e capirne di più, sono la Storia confidenziale dell'editoria italiana di Gian Arturo Ferrari e Album di famiglia di Ernesto Ferrero, e però, nonostante le suggestioni molteplici che se ne ricavano leggendoli, resta nell'essenza del lavoro editoriale qualcosa di sfuggente, di riottoso a farsi perfettamente inquadrare. Perché?
Roberto Calasso, autore di un altrettanto fondamentale L'impronta dell'editore, uscito nel 2013, sosteneva l'impossibilità di scrivere un resoconto davvero attendibile dei fatti dell'editoria, perché le decisioni che vengono prese sono perlopiù collettive e spesso talmente figlie del momento, del caso, della mutevolezza delle circostanze che ricostruirle a qualche anno di distanza attribuendo responsabilità individuali diventa difficile anche per coloro che di un'iniziativa, di un lancio, della scoperta o del rifiuto di un libro furono protagonisti. E d'altra parte, per coloro che si accostano al racconto da storici, i documenti che si possono consultare sono parziali, inaffidabili, spesso epurati dalle polemiche e dalle controversie più accese.
La decisione di pubblicare un autore e un'opera in termine tecnico si chiama «acquisizione» ed è un termine che conserva qualcosa di burocratico, di notarile: lista delle acquisizioni
Gian Arturo Ferrari sottolineava spesso come, al contrario, l'acquisizione dovesse essere un gesto forte della volontà, imperioso quasi, e ripeteva: «L'acquisizione è nietzschiana!»
Vero, dovrebbe essere così. Così sono le acquisizioni migliori, quelle più convinte, perentorie, appassionate, quelle che ti fanno credere nel potere della risoluzione quando funzionano e ti precipitano nell'avvilimento quando falliscono, quelle che fanno dell'editore non un intellettuale distaccato e lucido, ma un partigiano ardente, un sostenitore fazioso.
Ma non è sempre così, più spesso hai dei dubbi, sei convinto, ma non del tutto, vedi le ragioni per il sì e quelle per il no, e quando decidi per il sì, la tua decisione non è un gesto fermo, la tua approvazione assomiglia piuttosto a un «proviamoci». Al contrario, quando rifiuti, ti può assillare il senso di colpa, il rimorso di non aver saputo osare.
L'editoria del passato era quasi più fiera dei suoi no che dei suoi sì.
Quante volte ho sentito, all'inizio della mia carriera, che l'editoria si fa soprattutto con i no. E sempre Ferrari ci ripeteva «abituati a dire di no», come una sorta di educazione alla severità, al rigore, all'onerosa responsabilità di non essere al proprio posto per compiacere il mondo, gesto sempre facile e gradito, ma per sbarrare l'accesso a chi si riteneva non fosse adatto, compito ingrato, che suscitava antipatie e rancori. Ma l'editoria del passato era più pronta ai no perché più certa dei suoi valori, meno sfiorata dai dubbi, nel bene e nel male. Nella società fluida tutto diventa possibile; dove l'accesso è più facile, la scelta è più difficile, molto più difficile. Tutti cantano, tutti recitano, tutti scrivono, tutti hanno diritto al loro quarto d'ora di fama, pochi durano.
Da quando si acquisisce un'opera a quando la si pubblica passano da sei mesi a due anni e, quando pubblichi un'opera dopo due anni, speso succede che non sai più perché l'hai acquisita
Chi scrive è troppo umano, ma anche chi pubblica è troppo umano e ognuno vive questo tormentoso, bellissimo mestiere a modo suo secondo la propria umanità. Ho conosciuto editor fierissimi di aver rifiutato un libro di grande successo perché lo ritenevano un libro di merda e altri uscire dalla stessa disavventura annientati per sempre. Ma oggi è molto più facile non pubblicare un libro per non averlo visto nel mare delle proposte che arrivano tutti i giorni da mille parti piuttosto che per averlo letto e giudicato inadatto.
E, anche qui, ci sono opere che non si pubblicano per appassionata ostilità e altre che si pubblicano per indifferente acquiescenza, perché varie e non sempre prevedibili, tanto meno razionali, sono le combinazioni dell'umano.
L'episodio più profondo sull'indicibilità della decisione editoriale (specchio inquieto di tante umane decisioni di tutt'altro genere, si capisce), l'apologo più zen sul mestiere dell'editore io però non l'ho trovato né nel catalogo Adelphi né in quello Einaudi, ma in un racconto che mi fu fatto a voce e riguarda un editore commerciale, che sfoglia il suo catalogo per illustrarlo a un interlocutore non identificato. L'episodio, non mi ricordo perché, mi venne recitato in romanesco e l'inflessione dialettale trovo che aggiunga un tocco ancora più apparentemente eccentrico e, in verità, del tutto coerente.
Dunque, l'editore sfoglia il catalogo, punta il dito sul primo titolo e dice «Questo l'amo fattoperché vende».
Poi gira pagina e passa al secondo, lo indica e continua: «Questo l'amo fattoperché vende».
Passa al terzo: «Questo l'amo fattoperché vende».
E infine: «Questo l'amo fattoQuesto nun so perché l'amo fatto».
Ci possiamo girare attorno per pagine e pagine, ma l'essenza dell'editoria sta tutta qui.
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