Lassù nelle costellazioni splende la nostra storia

Da millenni, i miti legati alle stelle danno forma alla vita terrena e sono comuni a popoli diversi

Lassù nelle costellazioni splende la nostra storia

«Come sopra, così sotto» dicevano i lakota, perché ciò che succede quaggiù, sulla Terra, ha un suo riflesso lassù, nel cielo e, viceversa, ciò che accade lassù può influire, per vie misteriose che gli uomini tentano da millenni di interpretare, anche sulle faccende di quaggiù. L'impero celeste e l'impero terrestre, come per le antiche dinastie cinesi, dove l'imperatore era la Stella Polare, fissa e immutabile, sono uno specchio l'uno dell'altro; di più, l'ordine del cielo, apparentemente così cristallino, immutabile e rassicurante, può servire a spiegare i fenomeni della Terra, così prosaici, caotici e angoscianti. Ed è proprio per tenere a bada «l'angoscia cosmica», come la chiama, con (probabilmente involontari) echi leopardiani, Anthony Aveni, che nei secoli gli uomini hanno elaborato e raccontato «storie stellari», storie di stelle e sulle stelle, ma che parlano, più che dello spazio infinito, di noi.

Anthony Aveni è astronomo e antropologo, due discipline apparentemente lontane fra loro che insegna, da professore emerito (è del 1938), alla Colgate University di Hamilton, stato di New York. Ha una terza cattedra in Studi dei popoli indigeni d'America, anche se il suo interesse non si ferma ai nativi del Nord, bensì si è allargato, nel corso di quarantanni di ricerca e 35 libri pubblicati, alle popolazioni indigene del Sudamerica, del Centroamerica, dell'Australia, della Polinesia, dell'Artico... Insomma fondendo queste passioni smisurate, a cavallo fra terra e cielo, Aveni ha fondato, in pratica, un nuovo settore: l'archeoastronomia e l'astronomia culturale. Per capire che cosa siano, basta aprire il suo nuovo saggio, Stelle (il Saggiatore, pagg. 210, euro 23; traduzione di Giulia Poerio), in originale Star Stories, che chiaramente è un riferimento a Star Wars, del resto le storie stellari possono essere molto cruente, e parlare di battaglie, stupri, uccisioni, carneficine, punizioni tremende. Il sottotitolo è «Il grande racconto delle costellazioni», ed è perfetto nella sua ambiguità, perché il punto è che, in queste storie stellari, non sono soltanto gli uomini a parlare delle costellazioni, ma sono proprio queste ultime, attraverso le storie, a parlare degli uomini stessi, della loro vita, delle loro sofferenze, delle loro paure e dei loro sogni. Un po' come opere d'arte naturali, le stelle ci inseguono e ci osservano e, ciò che noi vediamo in loro, loro ci rimandano indietro, anche se non sempre è altrettanto luminoso.

Per esempio, la costellazione di Orione appare quasi in ogni cultura e i miti ad essa collegati sono tutti un insegnamento morale, un richiamo a «come non ci si dovrebbe comportare», a che cosa succede se si violano i codici etici. L'Orione dell'Olimpo greco è un cacciatore arrogante, un classico esempio di hybris che non può sfuggire alla nemesi, nel suo caso la puntura di uno Scorpione, che lo spedisce dritto dritto lassù, con tre stelle ravvicinate a formare la sua cintura, la brillantissima e azzurra Rigel che indica la gamba, la guerriera Bellatrix e la rossa Betelgeuse simmetricamente all'altezza delle spalle, e un ciclo stagionale di apparizioni e sparizioni notturne che corrisponde esattamente alle vicende mitologiche. In Cina, la costellazione rimanda alla storia dei primi due figli dell'imperatore Ku, così litigiosi che il padre, sovrano saggio e musicista, li spedisce lontano: i due fratelli non ereditano mai il trono, che tocca al figlio minore. Nella tradizione delle Antille, Orione si chiama Epietembo ed è il protagonista di un sanguinoso triangolo amoroso, mentre per i lakota è una mano, ma una mano punita, infatti indica il «capo che perse il braccio» per avidità. Non è finita: per gli indigeni dell'Outback australiano, Orione rappresenta tre fratelli castigati dalla divinità per aver pescato e mangiato una ricciola, l'animale sacro del loro clan. Per i maya, invece, Orione con le sue nebulose è legato al grande fuoco cosmico della creazione e le stelle della sua cintura sono la Tartaruga, «la prima forma di vita emersa sulla Terra prima che il cielo ne fosse separato». È una coincidenza singolare, eppure la scienza oggi ci dice, in termini molto più tecnici rispetto alla semplicità del mito, che la Nebulosa di Orione continua a generare nuove stelle, «molte circondate da dischi cosmici da cui è probabile che in futuro nascano pianeti in grado di ospitare la vita».

A loro volta, le nebulose, cioè le zone oscure della Via Lattea, nelle culture dell'emisfero Sud rimandano agli animali più importanti delle varie zone, e a momenti di crisi nei loro cicli di vita: l'Emù in Cielo degli aborigeni australiani, il Lama celeste e la Volpe predatrice degli inca, il giaguaro e il tapiro delle popolazioni del bacino del Rio delle Amazzoni, il cane e il nandù degli abitanti delle praterie del Gran Chaco del Cile meridionale e dell'Argentina, i bruchi dei desana della Colombia. Gli animali sono i protagonisti indiscussi anche dello zodiaco (che significa proprio «circolo di animali»), in qualsiasi cultura ne abbia uno: dal leggendario zodiaco inventato dall'imperatore di Giada, che copre dodici anni, e che nasce da una gara (l'attraversamento di un fiume) fra animali, allo zodiaco occidentale, in cui il Sole, la Luna e i viaggiatori (cioè i «pianeti») «percorrevano la via di Anu», come si chiamava lo zodiaco per i sumeri, che lo inventarono, fino quello dei maya, di cui ci è rimasta qualche traccia nel Codice di Parigi, dove, anche lì, è raffigurata una serie di animali, fra cui un serpente a sonagli, una tartaruga, uno scorpione e degli uccelli, che sembrano «divorare» il Sole, la Luna e i pianeti.

Tutto si tiene, nel libro di Aveni, dalle «megacostellazioni» come la Balena Ceto, che lo affascinava tanto da bambino, quando disegnava stelle da appiccicare sul soffitto della sua stanza per dormire sonni tranquilli, alla mastodontica Yahdii del popolo gwich'in in Alaska, fino alla dea del cielo egizia Nut, il cui corpo disteso copre l'intero arco notturno sulla cupola del tempio funebre del faraone Seti I, nel XII secolo avanti Cristo. Tutto gira e si collega, come stelle che ruotano intorno all'eclittica del nostro Sole e, insieme, ci trasportano in un vortice, fatto di tradizioni, parole antiche, suggestioni, misteri ancora da risolvere. Aveni riserva sorprese anche sulle Pleiadi, sulle costellazioni polari, su quelle «lineari» della Polinesia (dove orientarsi via mare era un'arte, praticata dal tiborau, che immaginava «bussole stellari» nella mente), sulle costruzioni di case e intere città in base al firmamento (Pechino, la capitale del Celeste Impero, e anche Washington...); e poi la mitologia della Via Lattea, il cammino in cui si incrociano Terra e Cielo, un fiume luminoso da percorrere, non solo per i pellegrini andini di Quyllurit'i, che arrivano fino al monte Ausangate, a 6.384 metri, all'origine del fiume Vilcanota, che scorre in parallelo a quello stellare...

Certo, per alcuni colleghi - Aveni cita Cosmo di Carl Sagan - «tutti i miti dedicati al cielo e alla creazione del mondo sono ingenui», perché sono diversi da ciò che ci dice la scienza, dalla teoria del Big Bang, e allora non hanno valore, «a prescindere dalla misura in cui le storie stellari orientano e danno forma alla vita quotidiana di quanti le narrano».

Ma non è solo questo, dice Aveni, è che un approccio del genere «riduce le possibilità di comprendere le nostre stesse idee e interpretazioni scientifiche moderne: da dove esse siano nate e quanto possano sembrarci diverse dalle storie così piene di meravigliosa fantasia narrate in luoghi e tempi remoti, quando le conoscenze geografiche e astronomiche erano inseparabili dai valori sociali e religiosi che donano significato all'esistenza umana». E che, si scopre anche attraverso le stelle, sono «qualcosa che noi tutti abbiamo in comune».

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