"Lavoratore e generoso ma col gusto di fare follie"

Il primo figlio ricorda il padre: "Sostenne Avati e Ferreri. Dopo Il vizietto per un anno andò in giro spesso vestito da donna"

"Lavoratore e generoso ma col gusto di fare follie"

«Sono il figlio naturale del celebrato». Inizia così la conversazione con Ricky Tognazzi, figlio naturale (classe 1955) di Ugo e della ballerina di origine irlandese della sua rivista, Pat O'Hara. I due non si sposarono e tutto finì nel 1961 quando Tognazzi, sul set del suo esordio registico, Il mantenuto, conobbe Margarete Robsahm, attrice norvegese sposata nel 1963. L'anno seguente nacque Thomas che ha voluto mantenere il cognome della madre. Mentre gli altri due figli di Tognazzi, Gianmarco nato nel 1967 e Maria Sole nel 1971, sono frutto dell'incontro con un'altra attrice, Franca Bettoja. Tutti e quattro saranno presenti a metà agosto al festival «TrentUgo Tognazzi» a Torvaianica.

Ma come mai proprio l'anonima Torvaianica negli anni '60?

«In effetti tutti i cinematografari andavano a Fregene. Credo che l'abbia fatto per un suo innato anticonformismo. Bisogna dire che all'epoca la zona era molto bella, una pineta accanto alla tenuta presidenziale, un tratto di mare con i pesci e la sabbia non nera come a Ostia. Papà comprò lì una serie di lotti sperando di coinvolgere altri amici come Raimondo Vianello e Luciano Salce».

E invece come andò a finire?

«Si ritrovò con una serie di spazi esagerati su cui costruì villa e campi da tennis. Trasformò il tutto in un luogo di incontri e di feste. E, con la scusa delle partite di tennis, del mare e della sua arte culinaria, il Villaggio Tognazzi diventò un centro, se vogliamo, anche culturale».

Con uno scolapasta come premio

«Sempre per anticonformismo. C'era l'insalatiera d'argento per la Coppa Davis? Così lui s'è inventato il contrario di una coppa, uno scolapasta, dove non puoi versare lo champagne».

Che ricordi ha?

«Papà aveva un gusto surrealista e inseguiva le novità. Fece diventare la villa di Torvaianica un contenitore di vere e proprie follie. Ricordo che un anno portò un elefante, un altro fece nevicare d'estate, spinse Anthony Quinn a spegnere una sigaretta con la frusta che invece lo colpì in pieno volto, poi vidi Philippe Leroy in versione Mangiafuoco, infine Villaggio, Panatta e papà, vestiti da donna, che si misero a giocare con Pietrangeli in un doppio misto spassosissimo».

Lei sta preparando un documentario per il centenario della nascita, l'anno prossimo, ci sarà anche il Villaggio Tognazzi?

«Ne parleremo al momento opportuno. Però sì... ho avuto modo di vedere dei filmini di papà, molti ambientati proprio in una nascente Torvaianica, con un mare vivo e bello come i tramonti».

Una storia abbastanza simile a quella del villone di Velletri

«Tutti andavamo a Nord di Roma, ma lui scelse i Colli Albani. Facendo faticare non poco i suo amici. Non perché fosse lontano dalla Capitale, ma per il ritorno da affrontare dopo aver bevuto il suo vino e mangiato come disgraziati».

Ci sono foto in cui suo padre è vestito in modi strani...

«Aveva questa smania di sorprendere, del colpo di scena, del nuovo e del diverso. In cucina, ma anche nel modo di vestire. Si portava a casa i costumi dal set, come da contratto con clausola apposita. Anche quando fece Il vizietto, per un anno intero andò in giro così. Era motivo di gioco, di divertimento, ma io aggiungerei anche di parsimonia. Veniva da una famiglia umile e se poteva farsi regalare un paio di scarpe, era contento».

Però i soldi li spendeva.

«Era un collezionista d'arte moderna e contemporanea e gli piacevano le auto. Tornò dagli Stati Uniti con una di quelle Buick enormi, tutta automatica, anche se poi spingevi il tasto e la cappotta non si apriva. E lui impazziva perché i ricambi non si trovavano. Credo sia stato il primo ad avere la Jaguar E, quella di Diabolik, solo che in Sardegna prese male una curva e finì subito fuori strada».

Come è possibile che trentuno anni dopo la sua morte, Ugo Tognazzi sia così presente nell'immaginario collettivo?

«Perché apparteneva a una generazione di cinema molto incisiva. Io, per ovvie ragioni, tra i quattro cosiddetti moschettieri, Manfredi, Gassman, Sordi e lui, sostengo di più il lavoro di papà. Ma è su di loro che si fonda e sostiene la commedia all'italiana che ci ha rappresentato per più di trent'anni. Una messa in scena della realtà, alternativa e paradossalmente più contemporanea a quella istituzionale del Tg1 e della Rai di Bernabei».

In che cosa Ugo era diverso da loro?

«Papà era il più cinico e terragno, un uomo del Nord. Era il rappresentante di quella parte d'Italia, il lombardo e il padano di buon senso, uno strumento in mano ai produttori per diversificarsi dagli altri mattatori che acchiappavano di più al Sud».

In che cosa era unico?

«È stato un grandissimo lavoratore, attento anche a far esordire chi riteneva giusto, penso a Polidoro e a Bevilacqua ma anche, in maniera diversa, ad Avati, o a continuare a dare credito a quello che chiamavamo il matto con la barba ossia Ferreri».

Cosa vedremo al vostro festival?

«Ci siamo uniti per raccontare Ugo Tognazzi con quattro voci diverse. Ci sarà una serata dedicata a lui, una a Dino Risi, una a Monicelli. Io sono il più fortunato essendo il primogenito e avendo vissuto tanto con Ugo, anche sul set. Se per un laico la vita ultraterrena è quella dentro di noi, lui continua a vivere nei nostri ricordi.

Per me è stato un amico, un confidente ed è ancora un punto di riferimento, mi ritrovo spesso a chiedergli consigli. A volte mi sveglio in piena notte pensando a lui, così accendo la tv alle quattro del mattino e spesso lo rivedo in uno dei suoi film».

Commenti
Disclaimer
I commenti saranno accettati:
  • dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
  • sabato, domenica e festivi dalle ore 10:00 alle ore 18:00.
Accedi
ilGiornale.it Logo Ricarica