La leggenda dell’America a sinistra

Una nuova leggenda attraversa l’Atlantico con i venti alisei: l’America starebbe andando «a sinistra». Starebbe sconfessando le dottrine e i principii conservatori e liberisti che nell’ultimo quarto di secolo l’hanno contrassegnata e ne hanno fatto la forza. Il discorso è destinato a ripetersi e a farsi più sonoro nell’imminenza della entrata in funzione del nuovo Congresso con i democratici di nuovo in maggioranza sia al Senato sia alla Camera e si approfondisce con le analisi dei sondaggi che vedono la popolarità di Bush ai minimi storici. Dal momento che questo presidente è stato identificato (anche perché si è proclamato) con il pensiero conservatore, allora la caduta verticale dei suoi consensi starebbe a dimostrare che l’etichetta è diventata un epiteto e che, addirittura, un ciclo storico si starebbe chiudendo. Con la fretta miope tipica di molti analisti politici, il de profundis si estende alla strategia del Partito repubblicano, che ancora due settimane prima delle elezioni di novembre veniva visto come quello di «maggioranza naturale» negli Stati Uniti e ora vien definito addirittura come «in via di sparizione» e, intanto, ridotto ormai a una forza politica «regionale», cioè del solo Sud.
Che volubili questi americani. Oppure che disattenti questi commentatori, che guardano ai sondaggi ma in maniera selettiva e ne ignorano il dato più sorprendente e più significativo. Gli hanno chiesto, agli elettori Usa, di esprimere un giudizio sui presidenti degli ultimi trent’anni. Lo hanno fatto due diversi istituti con due diverse formulazioni, ma il risultato è identico e categorico: il miglior presidente degli Stati Uniti in questo trentennio è stato Ronald Reagan. Due plebisciti: la Storia lo ricorderà come «eminente» (un aggettivo riservato a George Washington, Abraham Lincoln e Franklin Delano Roosevelt), il 64 per cento degli americani e lo hanno «rieletto» come l’inquilino che, se potessero, manderebbero alla Casa Bianca.
Un plebiscito in positivo che riflette come in uno specchio quello negativo nei confronti di George W. Bush. A metà strada galleggiano gli altri. Clinton prevale su Carter fra i democratici, George Bush senior prevale su Jerry Ford e, di gran lunga, su suo figlio. Se si mettono assieme i giudizi positivi con quelli negativi e si fa la differenza, si scopre che 64 americani su cento lo applaudono e solo il 10 per cento hanno un giudizio negativo. La pagella dell’attuale presidente è all’opposto: positiva al 19 per cento, negativa al 54.
Ora di Ronald Reagan si disse, ai suoi tempi e anche dopo, di tutto, tranne che fosse un presidente o un uomo «di sinistra». Era considerato da vivo e lo è nelle memorie, come il più conservatore fra gli eletti alla presidenza nel ventesimo secolo, il leader di un «movimento» fondato da Barry Goldwater e che aveva conquistato prima il Partito repubblicano e poi l’elettorato in genere. Era considerato un «estremista» sia come ideologia, sia nella politica estera, sia in economia. Per queste sue idee, anzi, è stato a lungo definito «ineleggibile», anche dopo essere stato eletto e rieletto, l’ultima volta conquistando quarantanove Stati su cinquanta. La gente, evidentemente, non ha cambiato idea, anzi. Ma è la stessa gente, gli elettori americani, di cui si dice frettolosamente che si stanno spostando verso sinistra.
Contraddizione, rebus, non proprio. Il cosiddetto «ripudio della Destra» è semplicemente il ripudio di una persona e per di più dovuto a un solo aspetto, anche se determinante, della sua azione come presidente: l’Irak. Se questa guerra fosse andata meglio, oppure se non fosse mai stata cominciata (tale è l’opinione ormai largamente prevalente in America) il giudizio su George W. Bush sarebbe positivo, a cominciare dalla sua conduzione dell’economia, che è la continuazione coerente di quella reaganiana. La guerra non è finita, la presidenza Bush neppure, c’è spazio (e, purtroppo, tempo) per un giudizio storico. Quello che emerge e non è destinato a cambiare è invece una nostalgia di carattere personale: Bush teso, Reagan rilassato; Bush aggrottato, Reagan sereno; Bush in atteggiamento di sfida; Reagan di tranquilla superiorità e fiducia nell’America. Una cosa che i politici chiamano «carisma» e che sarebbe irripetibile anche se le condizioni non fossero così diverse.

Ronald Reagan, oltre a tutto, è stato un uomo fortunato, secondo la definizione che Napoleone dava dei generali («bisogna sceglierli fortunati»). Di lui si ricorda che vinse, sorridendo, la Guerra Fredda. E che non minacciò l’Unione Sovietica, ma andò a Berlino, toccò il Muro e chiese a «Mr. Gorbaciov», per favore, di farlo cadere. Cosa che puntualmente accadde.

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