Lei, Strehler Bertolt Brecht (e il teatro impegnato)

Fu protagonista di una stagione «epica», quando anche in Italia si portò in scena la politica

Lei, Strehler Bertolt Brecht (e il teatro impegnato)

È successo a metà degli anni '60, quando i sessantottini non erano nemmeno all'orizzonte e il teatro «politico» era un fenomeno tutto straniero. L'Italia che sedeva nelle poltrone dei teatri aveva trovato una interprete mitteleuropea, una voce che poteva valicare i confini nazionali per entrare nei teatri «colti» di Francia, Germania e oltre. È successo con Milva. Milva che incontra Brecht. O meglio Milva che incontra Strehler: aveva 21 anni, aveva appena inciso un disco per il ventennale della Resistenza, Canti della libertà, era il 1965. Siccome il disco precedente era Le canzoni del Tabarin fu evidentemente un caso, la chance offerta da un percorso eterogeneo, non certo un impegno in erba. Tra i due era Strehler infatti che aveva già incontrato Brecht e lo aveva «drammatizzato» in un modo tutto suo e del tutto indiscutibile, come faceva appunto Strehler: teatro epico e straniante in cui canzoni e canzonette portavano in alto i cuori e il pubblico più generalista, che alla fine usciva dalla sala gorgheggiando.

A Strehler Milva piacque. Sconfinatamente e senza condizioni. A novembre di quel 1965 era già pronto il recital: le porte del Piccolo Teatro, in quegli anni il «colosso» del teatro impegnato italiano, si aprivano per l'indimenticabile Rossa e per un pubblico soprattutto milanese che da quel momento la amò come se fosse una concittadina. Il trinomio Milva-Strehler-Brecht cominciò quella sera di novembre, musiche di Kurt Weill, testi di Bertolt Brecht, con uno show che non aveva precedenti nella storia dei palcoscenici italiani: era teatro-canzone, come avremmo imparato a chiamarlo più tardi anche grazie a Gaber, ma era soprattutto quella presenza scenica che non ha più avuto eguali.

Milva in scena era una luce nervosa. Aveva il mistero del gesto guizzante dell'illusionista e il languore saggio del fumatore d'oppio. E poi era una voce, certo, indescrivibile e infatti ce ne asteniamo, ma che aveva una qualità narrativa tutta speciale, fatta per il teatro, gestuale, portante, tridimensionale: il risultato di un'educazione all'azione scenica su cui Strehler aveva compiuto il miracolo. Più volte nelle interviste Milva ha ricostruito che cosa accadde prima e dopo quel debutto: Strehler la condusse per i sentieri del teatro come si porterebbe Dorothy del Mago di Oz, non di certo come si farebbe con Alice nel paese delle meraviglie. Nonostante il suo sguardo imperativo, il suo piglio colmo di carattere, Milva si fece cera nelle mani del Maestro: divenne attrice, prima di tutto, di quel teatro «straniante» che non aveva mai nemmeno sentito nominare prima, e di quel Brecht per il quale è stata riconosciuta fino all'ultimo in tutto il mondo una delle principali interpreti.

Io, Bertolt Brecht era il titolo ambizioso di quel recital: l'opera poetica, gli scritti in prosa, le teorie per il «nuovo teatro», le canzoni: «la scapigliatura anarchica, l'apprendistato e la presa di coscienza politica, la pratica del teatro, l'esilio e la lotta contro il fascismo» insieme a La canzone di Jenny, Mahagonny e Schweik nella seconda guerra mondiale. Ma è soprattutto nella seconda, straordinaria edizione de L'opera da tre soldi del 1973 che fa apprezzare a pieno il suo talento di cantante e attrice, accanto a Domenico Modugno, Giulia Lazzarini, Giancarlo Dettori, Adriana Innocenti, Gianni Agus.

Milva fece anche teatro leggero, con Gino Bramieri: è del 1971 Un mandarino per Teo, era la commedia, era la risata. Fece il musical, con Davide Riondino, in Peter Uncino, quasi vent'anni fa: era un Capitan Uncino deliziosamente anarchico, sbadatamente malvagio.

Ma non si chiuse mai, quella parentesi teatrale, quel modello interpretativo che nasceva da una collaborazione unica nella storia del '900, quella con Strehler: non si è chiuso con la scomparsa di quel suo primo maestro e non si chiuderà certo oggi con quella della Rossa.

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