Il vecchio ci mise un po', a sistemare i bagagli (due valigie pesantissime, a giudicare dal suo sbuffare e dal sudore che gl'imperlava la vasta fronte, tre sacche da cui spuntavano alcuni fogli e uno zaino). Poi, ultimata l'operazione ed emesso un lungo sospiro, si sedette accanto al finestrino.
Gli piaceva, in treno, osservare il paesaggio che lasciava prima di quello che sopravveniva. Gli piaceva semplicemente perché lo considerava un procedimento logico, quindi doveroso. Prima il passato e poi il futuro: senza il passato, nessun futuro. È la legge, l'unica legge, della vita, alla quale si era sempre attenuto.
Lo scompartimento della carrozza 6 dell'Intercity Milano-Grosseto delle 8.05 era vuoto, cosa strana, per un sabato mattina di fine giugno. Così il vecchio, approfittando dell'insperata tranquillità, sprofondò subito nei suoi pensieri, dopo aver acceso l'i-Pod con quella che da decenni considerava la «sua» colonna sonora: la «Sonata a Kreutzer» di Beethoven. Pur essendo uomo di lettere, in viaggio preferiva non leggere, né tantomeno scrivere. In quelle ore, l'unico romanzo del quale, quasi suo malgrado, come fosse una funzione fisiologica involontaria, accettava di nutrirsi era quello che «leggevano» e «scrivevano» i suoi occhi chiari e lampeggianti, osservando i casolari, i boschi, i campi coltivati...
Il treno partì in perfetto orario. Il vecchio attese che il convoglio scivolasse lentamente fuori dalla Stazione Centrale, come una biscia che s'avventura fuori dalla sua tana, quindi si alzò per spegnere la luce e tentare, senza riuscirvi, di azzerare l'aria condizionata, nemica dei reumatismi che lo tormentavano. Quindi, toltasi la giacca azzurra di lino, tornò ad accomodarsi accavallando le gambe.
*** *** ***
«"Pardon, monsieur"... quello sarebbe il mio posto».
Ma il vecchio non rispondeva. S'era appisolato ancor prima d'arrivare a Pavia, con il capo chino sul petto e piegato verso sinistra, così che il nuovo viaggiatore, provenendo dalla carrozza numero 5, e già stizzito per l'inconveniente che l'obbligava a rivolgere la parola a uno sconosciuto, non s'avvide che l'altro dormiva.
«"Monsieur" - alzando la voce e dandole volutamente un tono aggressivo - "il est mon place". Signore... INSOMMA, VUOLE ALZARSI, PER CORTESIA?».
«"Oh, excuse moi, excuse moi..."», si giustificò con imbarazzo il vecchio, svegliato da quelle rumorose rimostranze. «Prego, prego», e subito fece per alzarsi.
«Ma lei... lei è...», balbettò sbigottito il secondo viaggiatore, togliendosi rispettosamente il panama e appoggiando a terra la sua valigia. Aveva riconosciuto il vecchio, ed era sopraffatto dallo stupore.
«Il conte Lev Nikolaevic Tolstoj, signore. Con chi ho il piacere di...».
«Maestro... maestro. Mi perdoni l'insolenza ma... io non sapevo che...».
«Che fossi ancora vivo? Infatti, non lo sono... Del resto pure lei, se fosse vivo, dovrebbe ormai avere una bella età...». Infatti anche il vecchio, squadrandolo da capo a piedi, aveva riconosciuto l'interlocutore. Ma molto meglio di questi seppe nascondere il proprio stupore.
«Maestro, non mi dica che lei CONOSCE ME?!? Com'è possibile che...».
«Se lei è, come io credo, Georges Simenon, alias Jean du Perry, alias Georges Martin-Georges, alias Gom Gut eccetera... ebbene sì, la conosco. Non dico d'aver letto tutti i suoi libri ma... diciamo che ne ho letti, e apprezzati, un buon numero».
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Ora il lettore si chiederà (e tutto sommato noi con lui...) in forza di quale strano capriccio del Destino, e del Tempo che gli è padre tutt'altro che amorevole, si sia potuto verificare un incontro simile. Il russo apolide Tolstoj nacque nel 1828 e morì nel 1910, mentre il belga francesizzato Simenon nacque nel 1903 e morì nel 1989. Trovarli insieme su un treno, per giunta in Italia, e soprattutto nel 2009 (perché l'incontro, occorre specificarlo, risale a un paio di mesi fa), lascia di stucco. E che, fra l'altro, avendo tutta l'aria d'essere un artificio narrativo, suona offensivo nei confronti delle loro opere, le quali mai imboccarono la facile scorciatoia dell'impossibile, o quantomeno dell'assurdo, per interpretare la realtà, ma sempre rimasero ancorate al vero, o quantomeno al verosimile. Tuttavia, gli scrittori erano su quel treno per un buonissimo motivo. Diciamo anzi che il loro era un omaggio, disinteressato e graditissimo, al nostro Paese che, anche se di lontano, entrambi amavano.
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Tra Voghera e Tortona, la deferenza dell'allievo, un po' spontanea e un po' di maniera, mostrata sulle prime da Simenon (il quale aveva naturalmente lasciato all'altro il suo posto preferito, accomodandosi di fronte a lui), e la compiaciuta superiorità da burbero patriarca ostentata senza troppa convinzione da Tolstoj, rapidamente svanirono, cedendo il passo a una conversazione dal tono amichevole, come fra colleghi che parlano distesamente di lavoro.
«Caro Sim... posso chiamarti così?».
«Ma certamente».
«Dove sei diretto?».
«A Roma. Ma prima devo far tappa in Maremma, da certi amici che stanno organizzando qualcosa, non ho ben capito che cosa, in memoria di Luciano Bianciardi, uno scrittore che mi dicono molto bravo e un po'...».
«Un po' simenoniano?».
«A quanto pare. E tu, Lev Nikolaevic, dove te ne vai, con questo caldo tremendo?».
«A Firenze. Sai, il Rinascimento mi ha sempre affascinato. Maestà ed eleganza, potenza ed equilibrio...».
«Come nelle tue opere...».
«Oh, non lusingarmi», si schernì Tolstoj. «Firenze, dicevo, ancor più di Roma, Napoli o Milano, "è" l'Italia per chi come me appartiene a un secolo che ormai sembra preistoria... Però prima di visitare quella magica città volevo "assaggiare" il mare italiano. All'epoca della guerra di Crimea ero troppo impegnato a raccontare le battaglie a Sebastopoli, non ebbi modo di ammirare la splendida natura circostante. Mi dicono che il clima della Liguria sia un po' simile, in questa stagione, a quello di laggiù...».
«E anche a quello della Costa Azzurra...».
«Luoghi che tu tanto ami, mi pare...».
«Sì, è vero. Ma forse il mare che sento più "mio" è un altro, non il Mediterraneo... E per ragioni affettive, più che estetiche».
«Quale? Forse l'oceano Atlantico che ti accompagnò in America?».
«No, lasciamo stare l'America, per carità. Mi riferisco al mare di Delfzijl».
«Prego?».
«Delfzijl. È una cittadina olandese. Lì nacque, o meglio, divenne adulto, Maigret».
«Ma Maigret è tutt'altro che un tipo freddo, nordico. Lo definirei piuttosto un Bezuchov temprato dalla vita. Con qualche tratto di Lévin, ma con più sangue freddo e raziocinio».
«Infatti... fu per puro caso che "Pietro il lettone" vide la luce lassù».
«Cioè? Spiegami, m'interessa».
«Be', andò così. Un giorno di settembre del 1929 mi trovavo appunto nel porticciolo di Delfzijl. Stavo facendo dei lavori di calafatura al mio battello, l'"Ostrogoth". Ma intorno c'era un gran baccano, così raccolsi le mie cose, compresa la macchina per scrivere, e mi rifugiai su un altro battello in secca, dove potevo pensare in pace. Proprio lì, in quel vecchio battello e nel vicino caffè che si chiamava... si chiamava..., scusa, adesso non rammento... comunque lì nacque la prima storia di Maigret che firmai con il mio vero nome e cognome. Alcuni biografi che vorrebbero saperne più di me, sulla mia vita...».
«... ah, i biografi, Dio ci salvi da loro...», esclamò Lev Nikolaevic allargando le braccia e levando gli occhi al cielo con gesto teatralmente ironico.
«... i biografi contestano questo fatto. Dicono che il libro lo scrissi sì a bordo dell'"Ostrogoth", ma nella primavera del '30, e non a Delfzijl».
«Che gente, caro Sim... A proposito di biografi, non oso pensare che cosa s'inventeranno su di noi, fra poco».
«Perché?».
«Come perché, non ricordi?».
«Non capisco...».
«Se ti dico 4 settembre 1989...».
«Ah già, il giorno della mia morte», mormorò Sim guardando fuori dal finestrino, dove però non c'era nulla da guardare, poiché il treno era appena stato inghiottito da una galleria, così che lo scompartimento era piombato nel buio assoluto. «Ormai, un particolare trascurabile...».
«Per te, forse, non per "loro". A vent'anni dalla tua scomparsa, fra qualche settimana, coglieranno l'occasione per rimestare nel passato, cercando di farsi belli alle tue spalle. Mi hanno detto (ho qualche informatore, nei giornali) che qualcuno molto vicino a te...».
«... chi?», chiese allarmato Sim.
«... chi non importa... non agitarti, nulla di grave comunque. Qualcuno, non ci crederai... pretende che si firmi una specie di carta bollata prima di chiedergli qualcosa di te», e la contagiosa risata di Lev Nikolaevic disegnò un pallido sorriso sul volto incupito di Sim.
«Credo di sapere a chi ti riferisci... Ma hai ragione tu: nulla di grave, in fondo», disse Sim, estraendo la pipa dalla tasca della giacca e iniziando a caricarla. Intanto il treno era uscito dalla lunga galleria e stava per giungere a Genova Principe. «Però... è proprio vero che quando si è in buona compagnia il tempo passa velocemente. Siamo già a Genova».
«Ma anch'io, cosa credi» riprese Lev Nikolaevic «dovrei prendermela... ovviamente se me ne importasse qualcosa... con i sapientoni, fra un annetto».
«Uh! Il centenario, te lo raccomando, io ci sono passato nel 2003. Che barba!».
«Quasi lunga come la mia», scherzò Lev Nikolaevic afferrando con entrambe le mani nodose l'augusto cespuglio.
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«Biglietti signori prego». Nello scompartimento dei due scrittori, rimasto miracolosamente vuoto, subito dopo Rapallo entrò il controllore. Visti i biglietti, si rivolse a Lev Nikolaevic: «Ah, lei va a Monterosso, signore... Bel paese, mia moglie è di Monterosso... be' buon viaggio signori».
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«Questa stazioncina non è proprio la Gare du Nord. Mi sembra ieri il giorno in cui giunsi a Parigi per la prima volta. Ero un ragazzo...», commentò di buon umore Sim aiutando l'amico a togliere valigie, sacche e zaino dal vano portabagagli.
Aveva accettato l'invito di Lev Nikolaevic a trascorrere qualche giorno nelle Cinque Terre.«Però, ammettilo, non è nemmeno triste e grigia come quella di Astapovo. Se fossi ancora vivo, non verrei certo a morire qui. Questo mi pare un bel posto per vivere, non per morire...».
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