Gombrowicz contro i poeti. Dall’Alighieri ai suoi lecchini 

Trovava la "Commedia" noiosa e ossequiosi i suoi ammiratori. Per lui scrivere significava azzerare se stessi

Gombrowicz contro i poeti. Dall’Alighieri ai suoi lecchini 

Ne nacque un affare diplomatico. Nel 1968, per L’Herne di Dominique de Roux, l’editore dei reprobi, Witold Gombrowicz aveva pubblicato un saggio Sur Dante (uscito, in Italia, da Sugar nel 1969 e da Dante & Descartes nel 2017). In direzione contraria ai pur formidabili libri del genere - chessò, i saggi danteschi di Thomas S. Eliot eConversazione su Dante di Osip Mandel’štam -, Gombrowicz scrive che Dante non gli pare granché; la Commedia,poi, è una boiata pazzesca. Davanti a Piero Sanavio, indimenticato giornalista hemingwayano, Gombrowicz rincarò la dose: «Se Dante mi annoia e se mi considero superiore a lui, lo affermo senza paura: è un mio diritto». (A proposito: vale la pena ristampare lo studio di Sanavio edito cinquant’anni fa da Marsilio, Gombrowicz: la forma e il rito, è più brillante di troppi, mortificanti saggi odierni, è fitto di frasi bellissime, come questa: «Gombrowicz vivo l’ho sempre incontrato in giornate di pioggia»; il polacco, d’altronde, scriveva con furia d’acquazzone).

Giuseppe Ungaretti s’incazzò e scrisse a de Roux una lettera piena di spine («Il libretto su Dante di quel polacco è vergognoso. È un fatto senza senso, idiota, che questa calunnia sia stata stampata»); nel Diario,Gombrowicz annota: «l’addetto dell’ambasciata italiana a Parigi ha annunciato una sua visita». Siamo nel 1969; Witold morirà poco dopo; per L’Herne era da poco apparso un Cahier dedicato a Ungaretti, a cura di Sanavio.

La disfida - diciamo così tra Gombrowicz e Dante durava da qualche anno. Già nel 1966 Gombrowicz squartava il Poeta con caustica acribia: «La Divina Commedia non mi basta. Vi cerco Dante senza trovarlo... A scuola e a casa ci hanno insegnato solo a rispettarli e venerarli, mentre in realtà il nostro rapporto verso i Grandi è di due tipi: da un lato ci prosterniamo e li adoriamo, dall’altro li trattiamo con condiscendenza e disinvoltura ». Comprendiamo l’euforica ira di Gombrowicz: l’anno prima, a Firenze, si era celebrato il trionfo di Dante; scoccavano i settecento anni dalla sua nascita. Saint-John Perse, il poeta e diplomatico francese, diplomato Nobel nel ’60, tenne un discorso inaugurale, Pour Dante, prontamente stampato da Gallimard; c’era anche Ungaretti, a rimarcare l’abissale grandezza dell’Alighieri. A Gombrowicz irritava l’atteggiamento ossequioso - e ipocrita - dei poeti verso il Poeta. Della Commedia, non salvava neanche l’Inferno: «I tormenti dei suoi dannati sono talmente rozzi, poveri, logorroici! E tutti quei predicozzi

CRUDO Witold Gombrowicz (1904 - 1969) visto da Dariush Radpour enunciati tra un tormento e l’altro...».

Questo andazzo da Lucignolo - o, per restare in tema dantesco, da Cecco Angiolieri - celebra, sotto la superficie, un’idea guerresca della letteratura, mai assisa sugli allori - sui quali, invece, in perpetua acquiescenza, ronfano i critici sornioni e i poeti in carriera. La stessa idea, in fondo, è professata da Leopardi nelleOperette morali, dove si dice (siamo all’altezza del Parini o della Gloria) che le opinioni dei critici e degli storici sono corrotte da «consuetudine ciecamente abbracciata». I lettori non mettono mai in discussione ciò che le accademie e il pregiudizio impongono; eppure, i grandi scrittori, proprio perché tali, devono essere interrogati e sfidati di continuo, fino a sfrattarli dal trono. Così - è ancora Leopardi - «a me interviene non di rado di ripigliare nelle mani Omero o Cicerone e il Petrarca e non sentirmi muovere da quella lettura in alcun modo».

Per continuare sulla scia del Gombrowicz “leopardiano”, bisogna leggere il Diario (ora in unico tomo per il Saggiatore, pagg. 922, euro 60, nella traduzione di allora, di Vera Verdiani, quando lo stampava Feltrinelli, in due tomi, usciti nel 2004 e nel 2008; medesima anche l’introduzione di Francesco M. Cataluccio, a parte lievi modifiche nel primo paragrafo) dal fondo, dalla formidabile allocuzione Contro i poeti.Gombrowicz ridicoleggia lo statuto dei poeti che «ormai non cantano più per la gente, ma per se stessi», stigmatizza «il poeta come un essere che non può esprimere se stesso perché è costretto a esprimere la Poesia ». In sostanza, il Witold scatenato sbugiarda l’idolo della Letteratura, la menzogna della Cultura. Scrivere, dice Gombrowicz, vuol dire azzerare tutto, soprattutto se stessi, fare della penna il proprio plotone di esecuzione, rifuggire dai riti dei letterati e dai premi, rifulgere nella rinuncia.

Contro i poeti era stato preparato per un discorso pubblico accaduto a Buenos Aires nel 1947; trasferitosi nella capitale argentina dal 1939, Gombrowicz ha scritto lì, da reietto, da «eremita sepolto vivo in Argentina», le pagine più violente del Diario.Malsopportava Victoria Ocampo, «un’anziana aristocratica piena di milioni», e i galoppini d’intelletto fino che ronzavano intorno a Sur - Paul Valéry, Bernard Shaw, Keyserling - galvanizzati da «quell’insistente sentore di soldi aleggiante attorno alla signora». Impossibile per uno scrittore «affascinato dagli strati inferiori del paese» entrare in contatto con Borges, «un artista che il caso aveva fatto nascere in Argentina, ma che avrebbe potuto altrettanto bene, e forse meglio, essere nato a Montparnasse ».

Il Diario di Gombrowicz è tutt’altro dai pur mirabili Journal che i francesi hanno prodotto a frotte - quelli, ad esempio, di André Gide, di Marcel Jouhandeau, di Julien Green. Lì la suprema raffinatezza rispecchia l’impero dell’egotismo, l’energia di una schifiltosa interiorità; qui, invece, è l’audacia dell’individuo che dilania se stesso, sono le dighe disintegrate, i tombini bombardati, il dio del caos in casa. Gombrowicz disprezzava la letteratura dello show, la letteratura «sfrattata dallo spirito individuale», che «diventa preda di fattori extra-spirituali e puramente sociali. Premi, concorsi. Celebrazioni. Associazioni professionali. Editori. Stampa. Politica. Cultura. Ambasciate. Convegni ».

Il Diario è un antidoto a quest’epoca esangue, retta dall’autocensura e dal perbenismo della correttezza. In spiaggia, per dire, a Piriápolis, Uruguay, è il 1962, Gombrowicz inveisce contro le grasse, contro lo «svaccato stravaccamento di quello schifo sfacciatamente sfrontato », quel «donnesco baobab di donna dal debordante didietro... e chi lo trova un macellaio capace di venirne a capo?». Terrorizzato dai grandi numeri - che annientano l’io allo sbadiglio, a uno sbaglio, allo zero - Gombrowicz disorienta il mito della fedeltà coniugale: come faccio ad amare un’unica donna se «non so chi sono io» e lei è «una delle tante femmine che abitano il globo terrestre, una delle tante vacche... un miliardo di vacche, un miliardo di femmine? ».

Ha scritto che «l’arte è aristocratica fino al midollo, come un principe di sangue reale.

È negazione dell’uguaglianza e culto della superiorità ». Resta il fondatore di un’eresia letteraria senza seguaci - per chiunque scriva, Witold Gombrowicz è un San Paolo: ci ha messo la croce addosso, aprendoci la via del tormento e della gloria.

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