
Territorio comanche, che ora la Bur-Rizzoli porta di nuovo in libreria a un quarto di secolo dalla sua prima uscita (traduzione di Ilide Carmignani, 129 pagine, 14 euro), segna idealmente il passaggio fra l'Arturo Pérez-Reverte giornalista di guerra e il romanziere che ne sta per prendere definitivamente il posto. Si tratta di un passaggio, come dire, graduale, nel senso che invece di essere il reportage nudo e crudo di un inviato sul fronte bellico, nella fattispecie il conflitto dei Balcani, è il racconto in terza persona delle esperienze di due colleghi, un operatore, Marquez e l'inviato di un canale televisivo, Barles, entrambi spagnoli e entrambi più o meno alter ego dell'autore, trasformandoli così nei protagonisti di un romanzo-verità il cui tema non è tanto il racconto e/o il resoconto di una guerra, ma il perché di una professione o, se si vuole, di una vocazione, le motivazioni più o meno inconsce, più o meno mascherate, che spingono un giornalista su un campo di battaglia, testimone disarmato quanto consapevole che quel suo essere al di fuori e al di sopra della mischia sanguinosa oggetto dei suoi reportage, non lo metta però al riparto dal pericolo, ovvero dal rischio di lasciarci la pelle. Come puntualizza Reverte, «per quanto starnazzino i turisti della domenica e i palloni gonfiati, in guerra un giornalista non viene quasi mai assassinato: lo ammazzano mentre lavora, in un posto dove la gente spara e c'è una grande confusione e girano un sacco di figli di puttana con il fucile in mano che non hanno il tempo né la voglia di chiederti i documenti. Sono le regole del gioco».
Il titolo rimanda a un gergo che è proprio, come tante altre cose, a quel particolare tipo di giornalismo. In sostanza, avverte Reverte, per un reporter di guerra «è il posto dove listinto ti dice di fermare l'auto e fare marcia indietro. Il posto dove le strade sono deserte e le case sono rovine bruciate, dove sembra sempre l'imbrunire e cammini rasente ai muri verso gli spari che risuonano in lontananza, ascoltando il rumore dei tuoi passi sui vetri rotti. In guerra, il suolo è sempre coperto di vetri rotti. Territorio comanche è lì dove li senti scricchiolare sotto i tuoi scarponi e, anche se non vedi nessuno, sai che ti stanno guardando. Là dove non vedi i fucili, ma i fucili vedono te».
Il gergo, dicevamo, che è tutt'uno con quelle che sono le caratteristiche di una sorta di tribù dell'informazione: gli alberghi, per esempio, dove la tribù ha i propri accampamenti, il modo di vestire, di esprimersi, quello di bere, la solidarietà fra colleghi e insieme però lo spirito di emulazione e la voglia di primeggiare, gli amori, naturalmente, che quasi mai sopravvivono oltre il luogo e il tempo in cui si manifestano, e le esistenze normali, moglie, figli, routine lavorativa, che quasi mai riescono a resistere a petto dell'eccezionalità con cui vengono messe a confronto.
In maniera succinta, e senza troppi peli sulla lingua, Pérez-Reverte ci dice altresì che la guerra è sempre la stessa barbarie: «Da Troia a Mostar o a Sarajevo, era sempre la stressa guerra. Ai temi di Troia ero molto giovane, ma negli ultimi vent'anni ne ho viste parecchie. Non so cosa vi raccontano gli altri, ma io c'ero e vi giuro che è sempre la stessa: un paio di disgraziati in uniformi diverse che si sparano a vicenda, morti di paura in un buco pieno di fago, e uno stronzo tutto in tiro che fuma un sigaro in un ufficio climatizzato, molto lontano da lì, e s'inventa bandiere, inni nazionali e monumenti al milite ignoto mentre fa un sacco di grana grazie al sangue e alla merda. La guerra, figlioli, è un grande affare per i bottegai e per i generali. Tutto il resto sono frottole».
Quella dei Balcani, nella fattispecie, ha a che fare con «una memoria ancora fresca. I bisnonni di quelli che stanno combattendo adesso si accoltellavano in nome della Sublime Porta o della Vienna imperiale». Una memoria a cui «da tre anni a questa parte bisogna aggiungere alle liste una sorella violentata dai serbi a Vukovar, un figlio torturato dai croati a Mostar, un cugino fatto a pezzi dai musulmani a Gornij Vekuf. Lì, ogni figlio di puttana ha tutto ben chiaro in mente. Ecco perché i Balcani, che sono entrati grondanti di sangue nel XX secolo, entreranno allo stesso modo nel XXI». È anche per questo che quella nella ex Jugoslavia segna, per Pérez- Reverte, il limite estremo di una professione: «Tre anni prima, ai tempi di Vukovar, i croati erano ancora i buoni, gli aggrediti, e i serbi l'unico cattivo del film. Ora, a chi più a chi meno, avevano spaccato il muso a tutti; le fosse comuni venivano alla luce in ogni fazione e ciascuno aveva qualcosa da nascondere».
C'è in Territorio comanche il fastidio, tipico del professionista, per il dilettante, il cosiddetto «turista della domenica», ovvero «i giapponesi, perché arrivavano, si facevano scattare una foto e se ne andavano il prima possibile». L'elenco va dai politici di ogni ordine e grado, agli intellettuali e ai giornalisti più o meno frettolosi che «una volta tornati nel mondo civile organizzavano concerti di solidarietà, tenevano conferenze stampa e addirittura scrivevano libri per spiegare al mondo le ragioni profonde del conflitto»...
C'è, abbiamo detto all'inizio, una domanda che sottende tutto il libro. Perché un giornalista vuole andare a scrivere de visu sulla guerra o a filmare la guerra, a raccontarla, insomma, a farne parte, per certi versi? A giudicare dal numero sempre più grande di donne impegnate sui fronti caldi del mondo, l'idea di una prova di virilità, con annesso gusto adrenalinico del pericolo, perde parte della sua credibilità, anche se Pérez-Reverte, nell'elogiarle, non può fare a meno di dire che «ci sono donne che hanno due coglioni così...».
Si può naturalmente mettere in primo piano l'informazione, ovvero il diritto, il dovere e il compito di far conoscere ciò che avviene, pur con tutte le limitazioni che ogni teatro di guerra comporta, la consapevolezza che solo «la verità di un istante» è quella che si può catturare e/o testimoniare, e che dietro ogni immagine c'è sempre in agguato il voyeurismo dell'immagine, così così come dietro ogni testo scritto c'è sempre una retorica vogliosa di supportarlo. E forse ha ragione l'autore quando quella domanda la fa porre dal suo alter ego Barles a un collega: «E tu, perché sei qui?. Perché mi piace aveva risposto con umiltà, a bassa voce».
PS in Territorio comanche, fra i nomi di reporter di guerra ricordati con simpatia c'è quello di Antioco Lostia, giovane ma già brillante firma del Giornale, «un milanese con denti di coniglio e cappelli tagliati a spazzola, talmente enorme con il suo giubbetto antiproiettile che sembrava un rifugio blindato».
Antioco morirà, ancora trentenne qualche anno dopo, nel 1995, vittima della sua passione per la pesca subacquea. Era allegro, con una forte carica umana, fedele alle amicizie e dà un malinconico piacere ritrovarlo in queste pagine, ancora e per sempre giovane.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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