Pontiggia, promossi e bocciati

Per vent’anni lo scrittore scrisse pareri di lettura per Adelphi e Mondadori. Eccoli

Pontiggia, promossi e bocciati

Non lo facciamo mai; ma permetteteci una breve nota personale. Circa vent’anni fa andai a trovare nella loro casa milanese la vedova di Giuseppe Pontiggia, Lucia, e il figlio Andrea, con i quali volevo parlare per una serie di interviste che in quel periodo firmavo sul Giornale dedicata ai «Figli di Milano». Giuseppe Pontiggia - il «Peppo» - era morto nel giugno 2003. La sua splendida biblioteca - 33mila volumi - purtroppo non potei vederla: era già stata smontata e imballata (andò in Svizzera, poi tornò in Italia e oggi è nella sede provvisoria della Beic, la Biblioteca europea di informazione e cultura). Però vedemmo un’altra cosa, che ci mostrò la signora Lucia: le schede dattiloscritte con i pareri editoriali che lo scrittore compilò nel corso di trent’anni, dal 1971 al 2001, per Mondadori e Adelphi. Di fatto uno dei lavori migliori del mondo: sei pagato per leggere libri (e dare un parere scritto sull’opportunità o meno di pubblicarli...). «Prima o poi, fra un po’ di anni - ci disse la vedova Pontiggia - magari li pubblicheremo».

Bene. Quel momento è arrivato.

Eccoli qui. Una scelta di quei giudizi editoriali - meno di duecento su oltre 4mila schede - sono ora stati raccolti nel volume Giuseppe Pontiggia, Un libro che divorerei. Pareri di lettura che esce a cura di Daniela Marcheschi, fra le più attente studiose dello scrittore lombardo, per una nuova casa editrice, Palingenia. I pareri più «feroci», secondo noi, sono stati lasciati a riposare ancora qualche anno (ci sono ancora molti autori bocciati in vita...); ma il risultato è comunque imperdibile. Quello di Pontiggia è uno squisito «romanzo di romanzi», pieno di citazioni, battute, riflessioni, collegamenti inaspettati, consigli di editing e di scrittura («La bellezza della scrittura sta nell’assenza delle regole»), inedite chiavi di lettura di un libro o un autore che credevamo di conoscere abbastanza, e invece...

E invece c’è sempre qualcosa da imparare da Giuseppe Pontiggia, un gigante: fisicamente (era alto, corpulento, con una chioma impomatata, la testa sempre dentro il frigorifero) e letterariamente: fu grande narratore, nei romanzi e nei racconti, giornalista (la sua collaborazione prima con il Corriere della sera poi con il «Domenicale» del Sole24Ore, chiamato da Armando Torno), traduttore attentissimo, sapiente critico letterario, bibliomane inguaribile e inappagabile (avrebbe voluto tutti i libri esistenti, ed era così ossessionato dal libro perfetto che non solo non segnava neppure una nota a matita, ma quando leggeva un libro non lo apriva del tutto per non forzare la costa e magari rovinarlo).

Ma non buttiamo via righe. Andiamo a leggerli, questi giudizi d’autore.

Esempi. Pontiggia capisce che i primi racconti di Djuna Barnes («un’autrice che è grande sopratutto altrove») sono poco più che «piacevoli», ma alla luce dell’opera successiva, dice, vanno pubblicati (e infatti usciranno col titoloFumo da Adelphi nel 1994). Intuisce che Il lacché e la puttana «è tra le cose migliori» di Nina Berberova. Sa bene che i libri di Alberto Bevilacqua - un ottimo mestierante, non un letterato puro - sono un po’ fatui, improvvisati, narcisisti; ma sa anche che piaceranno al pubblico, soprattutto femminile, quindi ne consiglia la pubblicazione. Non è convinto di Seminario sulla gioventù di Aldo Busi (la «violenza della scrittura» è notevole, ma è debole la «struttura romanzesca», «c’è troppo autobiografismo», «Insomma ci sono le qualità del narratore, sia pure espresse in modo disordinato e discontinuo, ma non c’è un romanzo riuscito», scrive nel 1982, due anni prima che Adelphi decida di farlo uscire; però poi nell’87 glorificherà Sodomie in corpo 11). È tiepido con La Moustache di Emmanuel Carrère, che infatti pubblicherà Theoria e solo poco tempo fa Adelphi. Stronca di fatto La vita e il tempo di Michael K di J.M. Coetzee, dieci anni prima del Nobel; e resta freddo anche di fronte a La pianista di un altro futuro Nobel, Elfriede Jelinek. E a proposito di Nobel coglie perfettamente la magnifica inconsistenza delle pagine di Patrick Modiano e la fragilità di quelle di V.S. Naipaul («Un buon professionista medio, ma non direi di rilievo»). Poi paga il suo tributo all’inarrivabilità della scrittura di Carlo Emilio Gadda e paga dazio di Fleur Jaeggy (moglie di Roberto Calasso). Si innamora perdutamente di Ricordi di mia madre di Inoue Yasushi («libro di una grazia mirabile»). Trova «troppo deludente e noioso» il romanzo Thilingiones di Gavino Ledda (che infatti nessuno ha mai deciso di pubblicare). Non è convinto delle Lettere a Capitano Nemo di Antonio Tabucchi. Non ha pietà per Ritrevacos di Franco Scaglia («un vivace fallimento»), che lasceranno a Marsilio. E confessa - quando dà il suo parere su Il certificato - quale è il «narratore che io amo di più del Novecento, e non aggiungo altro»: Isaac Bashevis Singer.

Non c’entra molto, forse; ma dopo aver letto la scheda sui racconti di Anna Maria Ortese non potevamo non leggere un testo «letteralmente geniale»: Conversazioni; grazie per il suggerimento postumo. E poi siamo contenti di pensarla come Pontiggia sui libri di J. Rodolfo Wilcock (per i quali spende l’aggettivo «divertente» nella sua accezione migliore).


Per il resto, non possiamo evitare di trascrivere un ricordo di Daniela Marcheschi su quanto Pontiggia tenesse alla cura della scrittura, da cui non voleva e non poteva mai prescindere: «“Lo scrittore non può tirar via nemmeno quando butta giù la lista della spesa!” esclamò una volta, commentando il comportamento di un allora giovane autore negli anni Ottanta, di molto grido, che pubblicava articoli giornalisticamente affrettati, talvolta sciatti...».

E non vogliamo pensare a cosa direbbe il «Peppo» di fronte a tanti “pezzi” di certi premi Strega di oggi.

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