Stig Dagerman, l'affollata compagnia della solitudine

L'arroganza dello Stato e del conformismo aggravano le inquietudini degli individui

Stig Dagerman, l'affollata compagnia della solitudine

Nel suo primo romanzo, Il serpente (1945), un collage di racconti tenuti insieme dal tema della paura, Stig Dagerman entra di persona tramite il personaggio di Scriver, uno scrittore. Mentre tutte le altre figure del libro mettono in atto strategie difensive nei confronti delle loro angosce, Scriver non lo fa. Sa che ognuno ha il proprio «serpente» e che nessuno se ne può liberare, né può fingere di ignorarlo. Del suo, quindi, lui ha scelto di prendere atto, tenendolo sempre d'occhio. E dice: «lo scrittore dovrebbe essere un simbolo di tutte le persone del mondo che non si fanno trascinare dall'ambizione di soffocare la propria paura». Perché soffocare la propria paura è un atto d'arroganza (o di pudore? o di viltà?), un'utopia.

Questo dal punto di vista personale, ma anche dal punto di vista collettivo, nella Svezia luterana di Dagerman domina un'utopia, un'illusione, in un certo senso opposta alla precedente: rafforzare la solidarietà nella comunità mettendo fra parentesi, o addirittura soffocando, le aspirazioni negli individui. Del luteranesimo Walter Benjamin (citato da Vanda Monaco Westersthål nell'introduzione a L'isola dei condannati, il secondo romanzo di Dagerman, uscito da Guida nell'82) scrive: «In quanto rinviava l'anima alla grazia della fede, e in quanto intendeva l'ambito mondano-statale soltanto come il banco di prova di una vita che religiosamente era soltanto mediata e che era destinata ad essere la dimostrazione di virtù civili, esso diffuse il senso di una rigorosa osservanza del dovere nel popolo, ma nei grandi la malinconia». Al netto della separazione tranchant fra il «popolo», povero sia economicamente, sia culturalmente, e i «grandi», ricchi di idee e quantomeno a galla finanziariamente, è come dire che il luteranesimo (ma in generale tutte le religioni, quando mettono il «voi» davanti al «tu») è un abbozzo di welfare, con cui puoi convincere più o meno facilmente il «popolo», ma i «grandi» no, i «grandi» non se la bevono, piuttosto muoiono di sete.

Morì di sete esistenziale, Stig Dagerman, il 5 novembre 1954, a 31 anni, uccidendosi nel suo garage. La stessa sete hanno anche i protagonisti dei suoi racconti, finora inediti in italiano, riuniti sotto il titolo del primo in ordine di apparizione, L'uomo che non voleva piangere (Iperborea, pagg. 304, euro 19, traduzione e Postfazione di Fulvio Ferrari). E se, come abbiamo detto all'inizio, i personaggi di Il serpente sono stritolati dalla paura, questi sono ostaggi di un nemico ancora peggiore che da soli non è mai possibile sconfiggere: la solitudine.

Da ragazzino, Dagerman lavorava a Storm, il giornale dei giovani anarchici svedesi. «Storm» come «tempesta», «temporale», uno scoppio d'ira atmosferica. E L'uomo che non voleva piangere (1947) si chiama proprio così, signor Storm. Anche lui cova l'ira, per il conformismo imperante che non arretra nemmeno di fronte a un lutto (tema che, segnala Ferrari, l'autore riproporrà tre anni dopo nell'articolo «La dittatura del lutto», sulla dipartita del re Gustavo V). È morta una famosa attrice e l'intera nazione deve soffrirne e soprattutto mostrare di soffrirne, piangendo. Ma l'impiegato Storm si ostina a non piangere. Sicché gli apicali della sua azienda lo invitano caldamente a farlo, e gli affiancano un collega anziano affinché questi, in caso di ravvedimento del rivoltoso, lo segnali a chi di dovere. Saranno le lacrime del collega, commosso dalla rievocazione di un episodio che lo sconvolse, a salvare Storm, facendolo finalmente piangere.

Il grottesco è uno dei registri narrativi di Dagerman, e torna in Il processo, ma con un finale surreale e orrorifico. Il giudice che interroga Petrus J. emette soltanto sentenze simboliche. E gli dice: «Noi non giustiziamo le persone, per ragioni umanitarie non giustiziamo le persone, solo i fiammiferi». Uccidendoli con una piccola ghigliottina. Al che il malcapitato, per il senso di colpa o per la forza della suggestione, si trasforma in un fiammifero. In Il condannato a morte la giustizia torna a colpire con tinte thriller-noir e un finale hitchcockiano da non rivelare. Un tale viene graziato in extremis dal miracoloso malore del suo boia. Così gli stessi che fino a pochi minuti prima ne pregustavano l'esecuzione, ora brindano alla sua salvezza. E lui sbotta: «Come si può fare affidamento sulla vostra pietà, se non si può fare affidamento nemmeno sulla vostra spietatezza?».

L'introspezione, che, trattandosi di un autore svedese, possiamo definire bergmaniana, domina in Apri la porta, Rickard!, dove una moglie trascurata dal marito è solita chiudersi in camera quando lui invita amici e amiche a casa per fare bisboccia. Isolamento come rifugio e anche come rivolta. Isolamento che però a un certo punto si trasforma in malattia mentale: «Quanto devo rendermi sola - pensa la donna - perché qualcuno si accorga finalmente della mia solitudine e mi salvi?». Alla signora è affine il padre che in Mio figlio fuma una pipa di schiuma attende che un nuovo inquilino bussi alla sua porta e medita: «Devo essere solo, l'illusione della solitudine deve essere costretta a scegliere me».

In questa compagnia di giro scritta e scritturata da Dagerman i più simpatici sono il fattorino di un magazzino di tessuti ossessionato dai vagoni dei treni dipinti di rosso («Non lo si

può rimproverare se a lui, che si è sempre trovato sull'incudine, ora viene voglia di fare il martello») e l'ubriacone che alla vigilia del funerale del padre si dice: «Perdere la fascia del lutto è come perdere il dolore».

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