L'uomo è un lupo. Meraviglioso e tremendo

L’uomo nella sua spiritualità individuale, l’uomo in relazione ai suoi, ai familiari, alla casa, alla patria, alle leggi, e l’uomo visto dall’esterno, giudicato, avversato, amato, ignorato dal resto del mondo

L'uomo è un lupo. Meraviglioso e tremendo

Ci sono romanzi che hanno il dono di aprire mondi interiori, soddisfare il desiderio estetico del lettore, tracciare pennellate rapide e delicate non solo sulla tela narrativa, ma anche nell’anima di chi la scopre pagina dopo pagina. È questo il caso di Essere lupo dell’autrice svedese Kerstin Ekman (Iperborea). Già il titolo contiene in sé un potere evocativo straordinario, in grado di attrarre il povero lettore annaspante in libreria, smarrito fra i tragici mattoni mussoliniani di Scurati, le ebbre banalità del premio Strega o i pruriginosi esordi letterari di Tina Cipollari… Una delle ragioni che solitamente mi tengono distante da librerie che non siano antiquarie o di libri usati.

Essere lupo e la mente va subito ai Luperci, ministri della ritualità romana che nel Lupo aveva uno dei suoi animali simbolici. La lupa nutre il fondatore, il rituale in corsa della festa dei Lupercali si svolge nel mese delle purificazioni e dei ritorni, febbraio, il mese che anticipa la rinascita, il risveglio della natura, il riattivarsi della guerra intesa come rinnovamento del mondo (le lance dei Salii e il loro percuotere la terra come la danza rituale di Shiva il distruttore…).

La storia comincia all’inizio di un nuovo anno, un nuovo ciclo, quando nei boschi di abeti e betulle della Svezia centrale appare al nostro eroe eponimo, Ulf, guardiacaccia settantenne, un lupo. Quell’apparizione, celata persino a sua moglie, gli cambia la vita. Come nel corso dei Lupercali si sacrificava un cane, ancestrale memoria dell’addomesticamento, così Ulf con quella visione del lupo recupera la propria natura selvatica, riscopre l’allontanamento dell’uomo dalle leggi della natura. In un mondo fatto di nubi cangianti, mai uguali a se stesse, di frattali disegnati nel ghiaccio, di luce intrappolata nella notte luminosa del nord, purifica il proprio spirito assieme agli errori di una vita, attraverso l’incontro col lupo.

Il romanzo è molto più di questa storia di redenzione spirituale attraverso l’originario richiamo selvatico. È un ricordo costante di tutte le relazioni che costituiscono la nostra vita: il padre e i nonni. Nel loro valore e nei loro sbagli. La compagna di una vita, Inga, descritta con l’intensità di un amore di grande tenerezza e complicità, pur conservando la coppia i propri spazi, i propri silenzi, solida forse proprio per questa ragione. Nonostante le limitate cadute, pur sempre insignificanti rispetto al dono reciproco di sé, alla cura. E poi c’è, al di là del branco, il mondo esterno, gli altri, nemici e amici. E le regole della civilizzazione, fatta di stupro della natura e dei boschi, lustrata, purificata dall’incontro col lupo.

La caccia, la cura del bosco, sono azioni rituali, che l’anima di Ulf rinnovata dall’incontro col Zampalunga, inizia a distinguere dal gusto ferino dell’uccidere, anche vilmente la preda, o dal lucrativo disboscamento, dalla violenza degli incendi, degli abeti secolari, sacri e solenni come antiche colonne della Magna Grecia, usati per farne ingrigiti pavimenti per una umanità indifferente.

C’è di più. Il romanzo della Ekman, nonostante qualche superfluo - ma mimetico - cedimento alla banalità del quotidiano, è un’opera letteraria che si afferma nella sua armonia, nella precisione dello sguardo, e nella sana, equilibrata brevità. È un viaggio fra le tre dimensioni dell’uomo, per citare l’opera pressoché sconosciuta di un moralista italiano del primo ‘700, L’Uomo in casa del francescano riformato Giulio Francesco Conti. L’uomo nella sua spiritualità individuale, l’uomo in relazione ai suoi, ai familiari, alla casa, alla patria, alle leggi, e l’uomo visto dall’esterno, giudicato, avversato, amato, ignorato dal resto del mondo. E credo non sia casuale l’essermi imbattuto contemporaneamente in questi due libri che distano 300 anni, e raccontano una analoga umanità perduta qualora non riesca recuperare la propria ancestrale dimensione spirituale.

Termino con una testimonianza personale. Ho incontrato anch’io un lupo qualche anno fa, in una notte di nebbia su una collina della Lucania. Trasportavo api, dalle parti del castello in rovina di Uggiano - un paesaggio degno della Scozia tenebrosa. I suoi occhi gialli mi fissarono per qualche istante ad una distanza di poche decine di metri. Annusava la paura, ma una paura diversa dal semplice timore. La paura dell’incontro con una natura antica, solenne, primordiale: il deinòs degli antichi greci. Qualcosa di meraviglioso e di tremendo allo stesso tempo. C’erano solo il mio e il suo respiro su quella radura brulla, circondata dal cisto in fiore, da tappeti di sulla e dalle querce. E le api, altro straordinario animale simbolico, col loro brusio, stanche e innervosite dall’ennesimo trasferimento su una nuova fioritura, mentre dalle arnie ancora chiuse emanava quel caratteristico odore di croissant noto solo agli apicoltori.

Non so se quell’incontro mi abbia cambiato la vita, come al protagonista di Essere lupo.

Certo, ciascuno di noi dovrebbe per una volta incrociare quello sguardo selvatico, per comprendere la propria essenza, interrogarsi sul proprio posto nel mondo e iniziare a cambiare prospettiva.

“Era imponente, alto, robusto, la fronte dritta e il muso – sì era nobile. Capisci cosa intendo?”.

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