William T. Vollmann il drogato, il drop out erede di Bukowski e Hemingway, lo scrittore folle capace di reportage dal fronte dell’Afghanistan come dagli anfratti pedofili della Thailandia, da scrittore dell’impossibilità umana a narratore dell’epopea degli uomini di ghiaccio e di miti, di armi e di acciaio... Luoghi comuni che imprigionano sempre più lo scrittore americano tra quegli autori di culto destinati ad essere più commentati che letti. Ed è un peccato, perché ad esempio il suo Puttane per Gloria (che fu edito coraggiosamente da Mondado ri quando allo scrittore dava affidamento solo Fanucci) è tornato ora in libreria per minimum fax (pagg. 213, euro 17), con una copertina tra Robert Altman e una immagine da Bukowski e Raymond Chandler: un vero peccato perché questo poema in prosa in apparenza racconti che formano un romanzo - è pari come potenza alla Terra desolata di Thomas S. Eliot e ai Racconti dell’Ohio di Sherwood Anderson, se solo le puttane avessero avuto un lampione anziché una apparenza sociale.
Leggo le recensioni apparse in Italia ad oggi: tutte uguali, tutte simili a quelle del New York Times, tutti a depotenziare Vollmann, a non capirlo pur di immolarlo tra gli scrittori maledetti.
Vollmann non è uno scrittore maledetto: è uno scrittore che ha capito come il corpo della frase vada difeso sino alla fine. Non è uno che fa un reportage - come raccontano le critiche - tra i luoghi oscuri di San Francisco e le sue prostitute. La domanda di questo libro è: «Sino a che punto scrittori e giornalisti raccontando la realtà non diventano sciacalli?».
È questa la vera domanda che Vollmann rivolge ai suoi lettori: il resto non conta, è una cortina fumogena per chi si vuole accontentare del sesso estremo da sociologia, per critici che leggono i libri non vedendo l’ora di trovare in un romanzo l’abisso americano quando l’abisso è in noi.
E dire che Vollmann ci avverte subito sin dalla introduzione quando scrive: «Quella che segue è disperazione ma di un genere più oscuro, perché fittizio».
In poche parole Vollmann ci dice tutto ma l’idea dei critici di vendere il libro come l’esperienza di chi ha vissuto ai margini della vita insieme alle prostitute è troppo allettante per non usarla.
Evidentemente.
Gli abissi non sono in ciò che Vollmann vede e racconta ma in ciò che noi siamo diventati: Achab e al contempo Moby Dick, con la differenza che non lo sappiamo più. Perché questo è Vollmann: una balena bianca e il suo capitano Achab, entrambi, indissolubilmente. Un conflitto che Vollmann chiarisce scrivendo tra le righe delle sue Puttane per Gloria: «Il fatto che abbiano tutte insieme le cose più interessanti della vita: sesso, amore e denaro, a volte morte. Come giornalista e scrittore, trovo che il sistema migliore per capire una città sia scegliere una prostituta e viverci insieme: sono professioniste della tenerezza, entrano in intimità con molta gente. Stando con una di loro riesco a vedere le viscere delle cose attraverso i loro occhi, come una saggia sorella maggiore che mi tiene per mano e mi indica cosa fare e cosa non fare.
Per Gauguin e Van Gogh era una “passeggiata igienica”, io preferisco considerarlo il mio metodo di ricerca. E detto questo, però, fare l’amore con una prostituta è bellissimo».
E dietro queste parole si comprende tutto: il protagonista che vaga per i luoghi oscuri di San Francisco per alleviare (o estirpare) il disturbo post traumatico dopo la guerra del Vietnam diventa la metafora della ricerca di una innocenza dove, come nel Miracolo della rosa di Jean Genet, il lirismo si scaglia contro il realismo non tanto del degrado che vede e documenta ma del degrado che ormai è in ognuno di noi.
Vivendo e descrivendo l’ambiente della prostituzione - tra dosi di crack e Aids - Vollmann si tiene ben lontano dal machismo da retrobottega di un Raymond Carver. Il realismo di Vollmann è sporco perché non potrebbe essere altrimenti, ma la domanda è: quando lo raccontiamo in un libro o in un articolo siamo sicuri che, per ottenere l’attenzione del lettore, non lo infanghiamo ancora di più? Tralasciando Freud e Jung, ai quali lo scrittore ricorre più volte sotto traccia, Vollmann ci insegna che, mai come di questi tempi, la cronaca - soprattutto delle vicende umane - non è tanto una ricerca empirica, di fatti e di prove, ma è lo sporcarsi le mani con la storia che si deve raccontare, è il condividere con chi si racconta non solo la superficie ma le ragioni, i perché, gli sbagli, senza giudizi. Se c’è una lezione, anche di giornalismo, in questi racconti/romanzi, è che la notizia non è un clamore immediato ma è condivisione di un peccato, di uno sbaglio, di una umanità che a molti può apparire deragliata ma sulla quale stendere un giudizio è un errore perché allora non si usa più quella sensibilità che ogni racconto o articolo vorrebbe evocare. William T.
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