L'identità dell'Italia ha trovato "casa"

l'assessore alla Cultura di Milano spiega i criteri della nuova permanente. Le arti superano l'arco ideologico del secolo che parte nel '14 e termina nell'89

L'identità dell'Italia ha trovato "casa"

Si apre oggi a Milano un nuovo museo: il Museo del Novecento. È una bella e buona notizia. Non solo per Milano. Ma per l’Italia. Come è noto l’Italia non è una potenza economica, né militare. Ma è una potenza culturale. Perché l’idea non rimanga aristotelicamente «in potenza» serve, tuttavia, un atto e un fatto. Questo museo è il fatto e il Novecento l’atto. Un atto unico che ha bisogno di un fatto pubblico. Con una premessa: in una stagione di crisi economico-politica e di fronte a «tagli» che feriscono la cultura aprire un nuovo museo attraverso una ristrutturazione e un riallestimento - il cui valore è vicino ai 30 milioni di euro - è motivo di merito e orgoglio per il Comune di Milano, per Letizia Moratti. Perché il museo è un’opera pubblica, dove la cultura del permanente prevale finalmente sul temporaneo, una sorta di ponte sullo stretto che unisce la modernità e il contemporaneo.
Ciò detto vi è un errore di fondo, nel nostro Paese: contrapporre l’economia alla cultura. Quest’ultima è un’altra forma di economia al centro della quale vi è l’uomo che diventa persona attraverso una relazione di senso con l’altro. Per cui credo che, con le parole di Paolo Grassi del 1972, la nostra società ha bisogno più di tensioni ideali che di efficienza. Se vi saranno gli ideali ne conseguiranno le efficienze. Perciò non si vuole aprire solo uno spazio di 4mila metri quadrati allestiti con oltre 350 capolavori da Pellizza da Volpedo attraverso Modigliani, Boccioni e Balla, Sironi, De Chirico, Morandi, Martini e Melotti, Fontana, Manzoni, Burri, Fabro...
Questo museo non vuole solo rivendicare di essere stato realizzato senza supplementi economici, senza ritardi, senza biglietto per i visitatori, grazie a una nuova e diversa logica tra pubblico e privato che ha raccolto quasi 3 milioni di euro passando dalle sponsorship alle partnership (Finmeccanica, Bank of America e Hyundai). Questo museo non vuole solo suggerire il suo saper fare sistema senza discontinuità tra collezioni civiche e allestimenti, architettura e contesto urbano, rapportandosi a Palazzo Reale, piazza Duomo, il Duomo stesso, la Galleria Vittorio Emanuele e il Teatro alla Scala. Questo museo non vuole essere solo dei milanesi, ma degli italiani, quelli che hanno vissuto le amarezze dell’esilio degli unici due movimenti artistici che hanno caratterizzato la nostra cultura dopo il Rinascimento: il Futurismo e l’Arte povera, celebrati all’estero e calpestati in Patria. Ribadire e rappresentare, per esempio, il significato del Futurismo e di Filippo Tommaso Marinetti è un dovere morale più ancora che un bisogno estetico.
Eppure il Museo del Novecento si offre al Paese anche come un’interrogazione sulla nostra identità, sulla nostra storia, sul nostro Novecento. Perché questo secolo in Italia è ancora in viaggio sui binari della «falsa profondità e serietà filistea». La stazione iniziale è l’uccisione di re Umberto I il 29 luglio del 1900. Un secolo tutt’altro che breve che non può essere teso entro l’arco ideologico 1914-1989. Tutti ne siamo ancora figli. È stato il secolo delle rivoluzioni fascista e comunista, di quella tecnologica e dei consumi. Le prime due fallite, le altre in difficoltà. Che cosa ci resta, se non l’unica rivoluzione possibile che è quella culturale?
Milano con questo museo vuole aprire un dibattito, un dialogo dialogante per disarmare le ideologie residue attraverso l’arte.

Perché l’arte è una fede che ci può liberare dall’arroganza, dall’ubris, da quella volontà di potenza che ha segnato gli errori e gli orrori di un secolo che non va superato in nome del suo stesso limite. Per un avvenire al di là del futuro.

*Assessore alla Cultura
del Comune di Milano

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