L'immodestia di Scalfari il super ego milionario del fondatore-vate

La vanità è una brutta bestia. Quando la vecchiaia si impa­dronisce di un uomo perfino la di­sperazione di vivere diventa ridi­cola

L'immodestia di Scalfari 
il super ego milionario 
del fondatore-vate

La vanità è una brutta bestia. Quando la vecchiaia si impa­dronisce di un uomo, e un fu­tile compiacimento di sé si insinua nel suo cuore, perfino la di­sperazione di vivere diventa ridi­cola. Prendiamo Eugenio Scalfari, il Fondatore della Repubblica , il giornale che ha esercitato ed eser­cita con successo una pedagogia autoritaria ma non autorevole (glielo disse addirittura l’avvocato Agnelli, sempre attento al quoti­diano- cognato). Da una sua bella vecchiaia, magari orgogliosa e su­perba, ma non vanitosa, avrem­mo avuto tutti qualcosa da guada­gnare. Un bel vecchio sicuro della propria debolezza poteva riflette­re sulla sua boria fascista d’antan (scriveva allegramente su giornali del Duce, ma non se ne è mai as­sunto la responsabilità civile, reci­tando invece nella parte di un eroe longanesiano dell’eterno an­tifascismo bacchettone); poteva indagare sulle miserie di una sca­lata sociale e mondana che ha de­formato e massificato commer­cialmente la tradizione liberale del Mondo di Pannunzio, ma ha preferito lasciarsi pigramente coc­colare dai beautiful people di una Roma carina e indulgente; sareb­be stata una bella lezione intro­spettiva il suo riandare ai giorni in cui divenne un riccastro, sacrifi­cando a un pacco di miliardi debe­nedettiani le bellurie dolosamen­te bugiarde che raccontava sul­l’editore puro, e sul giornale che ha per soli padroni giornalisti libe­­ri e lettori, libertà inesistente scam­biata per solida paghetta nella ur­gente necessità di mettere insie­me la dote per le figlie, come disse giustificandosi, spudorato e inge­nuo; sarebbe stato bello se avesse denunciato il suo conflitto di inte­ressi con il proprio editore nella ventennale crociata antiberlusco­niana per st­rappare tanti bei milio­ni di euro all’Arcinemico, che ave­va rilevato Retequattro dal falli­mento degli eletti mondadoriani e poi la Mondadori dai suoi vecchi azionisti, lasciandogli la Repubbli­ca e il tesoretto dei giornali locali per imposizione politica di Craxi e Andreotti, intermediario Ciarrapi­co; e una meraviglia, sarebbe sta­to, uno Scalfari sereno, con qual­cosa di venerando sotto la sua or­namentale barba bianca, uno Scalfari equilibrato e non vacuo, non rancoroso, autoironico sul suo non facile rapporto di attrazio­ne verso la cultura che lo possiede ma che lui non possiede, la filoso­fia che biascica da liceale del se­condo banco, e magari capace di capire che la laicità è un valore lai­co e liberale, non una stupida con­fessione di fede e di ceto. Niente da fare. Il Fondatore af­fonda sempre di più nell’immode­stia scritta, orale e televisiva. Si guarda pensare allo specchio, in­contra il cardinal Martini per sug­gerire una spiritualità severa, pro­fonda, ma la sua, non quella del prelato di riferimento. Butta fuori a ripetizione libri ariosi e primave­rili, bozze di un banale giornali­smo culturale di serie B, per farseli recensire con gridolini di pensosa delizia sul suo giornale. S’incarta nelle varie «biennali della demo­crazia », dove i suoi scudieri neopu­­ritani, giuristi e ideologi altrettan­to vanagloriosi, gli apparecchiano un simulacro di idee e di pubblico che fa mercato, che fa soldi, che fa politica con mezzi spesso indecen­ti, da cinepanettone porno. Que­sto per la coltivazione dell’amor proprio dal basso. Intanto il suo italianista de chevet , debole in con­giuntivi, lo sprona a tirare le conse­guen­ze dei suoi ragionamenti sul­l’Arcinemico, a chiamare i Carabi­ni­eri e la Polizia di Stato per conge­lare le Camere in una bella prova di forza dall’alto. Il liberalismo del 113. In molti, tra i miei amici, aveva­no provato a restituire a Scalfari un po’ di fiducia in se stesso,solle­citandolo a essere come vorrebbe apparire, una specie di piccolo Montaigne meridionale, un diari­st­a introspettivo di magagne trop­po umane, e non una caricatura di filosofo, un guru pomposo e sem­­plicista per una élite di ignoranti in molta fregola, pieno di albagìa e di intolleranza. Non c’è stato ver­so. Viltà e vanità sono il carattere, evidentemente indelebile, del chierico italiano medio, il suo stig­ma botanico, la parte che riceve quella che Jonathan Franzen de­scrive come «l’impollinazione cul­turale » dei liberal derelitti e medio­cri nonostante tanta volgare pre­sunzione di sé. Peccato, e pazien­za. Bisognerebbe sottoporre il pe­tulante narciso alla cura del silen­zio, che gli farebbe un gran bene.

Non fosse che per questo Paese soffocato dai cercatori di applau­so, intontito dagli amplificatori di un senso comune forcaiolo e fazio­so, la cura delle vanità è un sottile quotidiano veleno, fa male, sfini­sce, imbruttisce.

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