In prima linea, sempre. Romanzare il dolore, mai

Morto a 91 anni il cronista che raccontò le guerre nel mondo, dalla rivoluzione in Iran all'Afghanistan

In prima linea, sempre. Romanzare il dolore, mai

I marines erano piazzati con un grosso cingolato dietro un muro di sacchetti di sabbia in difesa del palazzo dorato di Ferdinand Marcos, il padre padrone delle Filippine. Nel 1986 un milione di persone scendeva in piazza per cacciarlo via. Nel caos generale, in mezzo alla folla con le bandane gialle della riscossa, si avanzava a fatica. Dalla massa umana che urlava e premeva spunta ad un tratto un tosto piccoletto. Ciuffo di capelli da latin lover, giubbotto mille tasche senza maniche, occhi chiari, vispi ed energia da giovanotto si avvicina per dire: «Giornalisti italiani eh... Vi si nota lontani un miglio. Ciao sono Ettore Mo». Già leggenda fra i reporter di guerra rimango di stucco quando, come se nulla fosse, chiede un favore: «Sono bassetto. Mi dai una mano che guardo cosa c'è oltre il muro dei sacchetti di sabbia?». Un metro e 57, gli faccio scaletta perché Mo doveva sempre vedere, toccare con mano, annusare l'aria dolciastra della morte o quella pungente della polvere da sparo per scrivere cronache indimenticabili di guerra. A 91 anni è andato avanti uno dei grandi inviati della vecchia guardia, dopo aver indicato la strada a tutti noi che continuiamo a raccontare il lato oscuro dell'umanità.

Dall'incontro nelle Filippine ci ha unito l'Afghanistan e l'amicizia con un leggendario comandante dei mujaheddin, Ahmad Shah Massoud. Ettore era andato a cercarlo per primo, subito dopo l'invasione sovietica, inerpicandosi sull'Hindukush a cavallo. E mi aveva raccontato il fascino di questo ingegnere guerriero, che aveva ribattezzato il Che Guevara afghano. Sulla sua tomba dopo che fu ucciso, prima vittima dell'11 settembre, da due terroristi di Al Qaida, finti giornalisti, Mo ha scritto, fra le lacrime, un pezzo memorabile.

Negli anni Ottanta, giovane free lance, assorbivo come una spugna il suo modo di lavorare sul campo. Ettore, più che un grande inviato speciale, si è sempre sentito un cronista spinto dalla vocazione a scrivere con una lealtà ai fatti imparata dal giornalismo anglosassone. Non si stancava di ripetere che questo mestiere comincia dalla gavetta. E raccontava sorridendo di quando girava il mondo su una nave da crociera come steward, mandando i racconti di viaggio al Corriere della sera. Un giorno lo chiama Piero Ottone, allora corrispondente da Londra, per metterlo alla prova. Per anni è stato il collaboratore ignoto, senza firma, che si occupava delle notizie meno importanti o scriveva della sua amata musica lirica. Da giovane oltre alla scuola di lingue aveva fatto pure il cantante. La sua grande occasione, il primo, vero, reportage è quando il Corriere, nel 1979, lo manda a seguire l'esplosione della rivoluzione iraniana ispirata da Khomeini. Poi nel 1982, in Libano, arriva nei campi profughi palestinesi della strage di Chabra e Shatila con i corpi ancora caldi.

Ettore annusava lontano un miglio se un pezzo veniva confezionato dalla camera d'albergo: «Per fare il cronista, quello con le scarpe bucate, bisogna andare sul posto e non scrivere da lontano».

Non disdegnava mai un buon bicchiere anche in posti dove l'alcol era ufficialmente proibito come a Peshawar, la Casablanca pachistana. Penna, taccuino e immancabile Olivetti 22 spiegava che «davanti al foglio bianco mi prende il panico. Ho bisogno almeno di un paio di birre per vederlo ondeggiare un po'. Poi il pezzo viene fuori da solo». Allora gli articoli si dettavano ai dimafonisti per telefono, ma bisognava trovare una linea. Ettore mi ha raccontato le innumerevoli avventure, a tutte le latitudini, dalle semplici monetine che finivano sul più bello nelle cabine rosse di Londra alle cornette in posti impensabili, dove una telefonata si pagava a peso d'oro.

A Lucio Lami, grande firma del Giornale, era legato da un rapporto di odio amore. Un giorno erano assieme nella sanguinosa palude di Fao, durante la spaventosa guerra Iran- Iraq, che ha provocato un milione di morti. La vecchia guardia per rendere ancora più attendibile il racconto di guerra scriveva «sono in trincea con Lucio Lami» e viceversa.

Al funerale di un altro grande del giornalismo di guerra italiano, Egisto Corradi, ferito in Vietnam, vicino a Mo c'era Indro Montanelli. In un video che oggi è un toccante testamento anticipato Ettore racconta che «Montanelli mi mette la mano sulla testa dicendo: Hai fatto bene a venire perché era uno della tua razza». Mo, che non ha mai avuto la spocchia del grande inviato, risponde: «Scusa se ti correggo, io ero uno della sua razza».

Uno dei suoi primi libri di reportage, La peste, la fame, la guerra è una Bibbia dal Centro America all'Asia passando per il Medio Oriente e l'Africa. Solo una volta l'ho visto veramente sconvolto, distrutto, quando uno dei signori della guerra afghani, Gulduddin Hekmatyar, gli ha fatto fuori l'interprete. L'ultimo incontro sul campo è stato in Afghanistan, subito dopo l'11 settembre 2001. Nonostante fosse affaticato dagli anni e da una vita sempre in giro per il mondo non mollava, ultimo simbolo della vecchia guardia.

Dei suoi tanti insegnamenti ricordo sempre una frase che ha ripetuto nel video oggi testamento: «Noi non scriviamo romanzi, ma cronaca, attenti agli aggettivi, a non singhiozzare troppo, con rispetto delle tragedie di chi sta soffrendo, altrimenti diventa teatro».

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