C'erano una volta i banchieri centrali inflessibili custodi dell'ortodossia monetaria: il loro compito era solo e soltanto quello di mantenere la stabilità dei prezzi attraverso il controllo del costo del denaro. Della crescita dei redditi si occupavano invece le politiche fiscali gestite dai governi. E le politiche considerate avventurose, per esempio perché inflazionistiche, finivano implacabilmente sotto tiro.
Roba del passato, perché i banchieri di una volta non ci sono più. La rivoluzione, come spesso accade quando si parla di questi temi, è partita dagli Stati Uniti. «Non è il momento di preoccuparsi del deficit federale», ha detto il presidente della Federal Reserve Jerome Powell una settimana fa. Se si guarda al lungo periodo i conti pubblici sono su un percorso «insostenibile», ha proseguito Powell, ma «oggi non è il caso di dare priorità a questa preoccupazione». È un'altra conferma della rivoluzione di settembre, quando la Fed ha annunciato la svolta.
La banca centrale Usa, rispetto a molte altre colleghe nel mondo, aveva già nel suo statuto un mandato considerato molto ampio: l'obbligo di valutare come criteri di orientamento del suo operato la stabilità dei prezzi, ma anche l'andamento del tasso di disoccupazione. Quindi un occhio alla moneta e uno all'economia reale. Da settembre si è andati oltre: la decisione presa all'unanimità dalla Fed è stata quella di considerare come riferimento un tasso di inflazione «medio» al 2%, accettando dunque implicitamente possibili «fiammate» momentanee dei prezzi. Una virata verso il sostegno all'occupazione e alla crescita. Ma anche un guanto di sfida alla Banca centrale europea. Perché la decisione americana tende a indebolire il dollaro nei confronti dell'euro, presidiato da una banca che in questo momento supera la collega americana quanto a credibilità anti-inflattiva. I capitali internazionali in cerca di un porto sicuro tendono ad affluire verso l'inflessibile Europa aumentando la richiesta della sua moneta e provocando dunque un aumento del prezzo relativo. Un rafforzamento della moneta, però, rende meno competitive le merci provenienti da quell'area economica, con tutte le conseguenze del caso.
Anche per queste ragioni sulla stessa strada indicata da Powell si è incamminata Christine Lagarde. La presidente della Bce, sia pure molto prudentemente, ha messo in discussione l'obiettivo di inflazione della Bce, indicato nel 2003 come «al di sotto ma vicino al 2%». La formulazione, ha detto la Lagarde «era adeguata a un periodo in cui la Bce stava cercando di affermare la propria credibilità e un'inflazione troppo alta era la principale preoccupazione». Ora, invece, «nella situazione attuale di bassa inflazione, le preoccupazioni sono diverse e questo deve riflettersi nel nostro obiettivo d'inflazione».
Negli ultimi anni l'aumento dei prezzi è sempre stato ben lontano dal 2% e la Bce ne ha preso atto. Ma le radici concettuali della Banca centrale europea restano saldamente tedesche. Il credo della Bundesbank è passato nei trattati europei che stabiliscono che qualsiasi azione intraprenda la Bce, deve essere perseguita «fatto salvo l'obiettivo della stabilità dei prezzi», senza tenere conto, come la consorella americana, di altri parametri legati all'economia reale. Per questo, ha scritto Matteo Bursi sul sito lavoce.info, «è ragionevole pensare che la svolta non passerà inosservata presso la Bundesbank e la Corte Costituzionale tedesca». E quest'ultima «ha già reso chiaro con la sentenza del 5 maggio 2020 come non intenda tollerare comportamenti che vadano al di là di quanto concordato al momento della stipula del Trattato di Maastricht». E di recente il presidente della Bundesbank si è esibito nell'ennesima frenata: «Più interpretiamo in senso ampio il nostro mandato, maggiore è il rischio di rimanere invischiati nella politica e sovraccaricarci di troppi compiti».
La partita si giocherà su una distinzione: una cosa è quello che dicono i
trattati, una cosa è l'obiettivo di inflazione al 2%, fissato, non da un accordo internazionale ma da una delibera del Consiglio direttivo della Bce del 2003 che riprendeva e modificava una precedente decisione del 1998.
- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
- sabato, domenica e festivi dalle ore 10:00 alle ore 18:00.