L'Italia coloniale in mostra è una collezione di errori

A Torino un'esposizione ripercorre la storia della penetrazione in Africa. Con singolari omissioni

L'Italia coloniale in mostra è una collezione di errori
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Miracolo dei corsi e ricorsi storici. Mentre a Roma la premier Meloni rievoca la figura di Enrico Mattei per auspicare il ritorno di un'Italia protagonista nel Mediterraneo, a Torino si rimembrano altre epoche in cui l'Africa era «bel suol d'amore» e le sue abitanti incantevoli «faccette nere». Già, in un'epoca in cui l'Italia è al centro dell'emergenza migratoria può apparire una singolare coincidenza la mostra appena inaugurata ai Musei Reali dal titolo Africa, le collezioni dimenticate, che attraverso centinaia di opere «sottratte all'oblio», intende ripercorrere la breve storia del colonialismo italiano. «Una mostra di storia, più che di arte» sottolineano le curatrici in un excursus di 160 opere tra foto, utensili e armi provenienti dalle collezioni delle residenze sabaude e dal Museo di Antropologia di Torino.

La mostra è strutturata in cinque sezioni, con il dichiarato intento di documentare quelle che furono le relazioni tra la nuova Italia, prima sabauda e poi fascista, con il Congo Belga, l'Eritrea, la Libia, la Somalia e l'Etiopia. «Peccato che quest'esposizione, anziché fare chiarezza, alimenti nuovamente il grande castello delle bugie coloniali sull'Italia con errori grossolani, dimenticanze volute e omissioni colpevoli», tuona lo scrittore e fotoreporter piemontese Alberto Alpozzi, autore di numerosi saggi storici sull'Italia coloniale. La mostra di Torino, afferma, induce lo spettatore a un viaggio distorto sul ruolo dell'Italia in Africa dalla seconda metà dell'Ottocento al Ventennio, «e per capirlo basta consultare gli archivi pubblici accessibili a tutti». Già il pannello iniziale che parla di «un secolo di violenza, di razzismo, di sfruttamento e di spoliazione per i popoli africani» pare escludere qualunque possibilità di confronto. «L'Italia viene indebitamente coinvolta nella barbarie belga in Congo - dice Alpozzi - affiancando i nomi dei nostri tecnici, che prestarono la loro professionalità in ambito ferroviario al regno di Leopoldo II, alle foto di donne e bambini con le mani mozzate». Dal Congo alla Somalia il passo è breve, con il pannello dedicato a Vincenzo Filonardi, «iniziatore» della penetrazione economica e politica dell'Italia nell'Oceano indiano: «La mostra si dimentica che i diversi accordi di protettorato sulla costa della Somalia furono sottoscritti dietro il pagamento di un canone annuo di 1.800 talleri, e anche che Filonardi liberò in Somalia, di cui fu primo governatore, i primi schiavi nel 1893». Continuando il percorso tra suppellettili, lance e tamburi, si arriva alla sezione dedicata alla spedizione del Duca degli Abruzzi sul massiccio del Ruwenzori, tra Uganda e Congo. La spedizione, spiega il pannello, violò simbolicamente la sommità del massiccio, protetta da un tabù, per l'alterigia del Savoia-Aosta: «insomma, finora un colonialismo puramente simbolico» chiosa Alpozzi. Ma il clou arriva nella sala intitolata «Dalla spartizione dell'Africa all'aggressione coloniale»: un titolo, precisa lo storico, che fa a pugni con la seconda riga che parla dell'«acquisto della baia di Assab (1882)». Acquisto o invasione? «Eppoi c'è il pannello intitolato Unioni e collaborazioni che denigra gli africani che si relazionarono con i colonizzatori mossi... dal prestigio e dall'ascesa sociale». Colonizzati troppo ambiziosi, insomma. Il pannello si conclude con la pratica del «madamato», accusando della barbara usanza solo gli italiani e il periodo fascista, «e sorvolando sul fatto che fosse un'antica tradizione etiope: matrimonio retribuito e divorzio pagato in modo proporzionale alla convivenza».

Onta senza attenuanti, ammette Alpozzi, fu l'utilizzo delle armi chimiche durante la guerra d'Etiopia, impiego autorizzato dopo la morte del pilota Tito Minniti nel dicembre 1935 che, catturato, fu evirato e decapitato: «Ma questo il pannello non lo scrive per non urtare le sensibilità dei visitatori, o forse perché, in fondo, l'invasore se lo meritava». Ed eccoci al 1960, l'anno dell'indipendenza degli Stati africani, contrassegnata da eccidi e rappresaglie verso i coloni di tutta Europa.

«Non è chiaro perché la mostra la identifichi con la foto di un colonizzato italiano, e non si accenni invece all'Amministrazione fiduciaria italiana della Somalia, unico caso di decolonizzazione assolutamente pacifica».

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