L'ondata di gelo del 1985 e i 90 cm caduti in 72 ore

In tre giorni Milano dall'incanto alla paralisi. Chiuse le scuole e 2mila gli spalatori latitanti

L'ondata di gelo del 1985 e i 90 cm caduti in 72 ore
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A parte quella dell'inverno del 1985 la neve milanese era una perla rara, color grigio smog. Chi allora era piccolo riusciva solo immaginare una città dal manto bianco grazie ai ricordi dei nonni quando «la si doveva togliere perfino dai tetti». Giocoforza non si può dimenticare quella prima visione mattutina avuta sbirciando fuori, il 13 gennaio di 40 anni fa: la coltre di fiocchi soffici sui marciapiedi e i cofani delle automobili, il miglior invito a uscire. A scuola di volata per toccare quel bendidio candido e gelato, cercando di incontrare qualcuno per giocare. Le speranze erano tutte pro-neve, fa che resista, fa che non si guasti. Da liceali non si aveva contezza delle difficoltà che ci sarebbero state per rimuoverla dalle strade, agevolare gli spostamenti o evitare i disastri. Ma si era ancora al primo giorno. Un paesaggio fatato da percorrere lentamente, finestre dai vetri magnetici: impossibile non guardarle. La preside comunicava le notizie alla classe: «Pensate che a Roma sono in subbuglio per due fiocchi, hanno chiuso le scuole e sospeso molte attività. Il Comune di Milano ha mandato rinforzi... che differenza fra Roma e Milano». Così, mentre i coetanei di Roma si prendono una vacanza invernale, noi si va avanti a studiare, a laurà.

Ma il prosieguo della perturbazione potè smentire i buoni propositi, la neve continuava a scendere.

Il pomeriggio stesso arrivò la telefonata dalla scuola, effetto di un'ordinanza comunale e regionale: si resta a casa, anche noi finalmente come i romani. In città le lezioni furono sospese per 4 giorni, in Lombardia per una settimana. Si seppe che gli aiuti spediti a Roma erano le ruspe e che il sindaco di allora, Carlo Tognoli, in attesa dell'esercito e per via di una polemica sugli spalatori (avevano risposto in duemila a inizio stagione ma al momento del bisogno erano latitanti), si adoperò per spalare personalmente la neve dalle strade.

Al telegiornale non si parlava d'altro. Ci si ricorda di autobus impantanati e di gruppi di passeggeri scesi a spingere, come si fa con le automobili. Più erano i centimetri depositati, più si contavano i disastri: la nevicata del secolo durò più di 72 ore filate, quattro giorni e tre notti. Si stimarono tra i 70 e i 90 cm di neve scesi. Nei parchi si sprofondava fino al ginocchio neanche fossimo a Bormio, la montagnetta di San Siro era diventata la meta più desiderata del doposcuola: chi poteva tirava fuori gli sci.

Dapprima crollò parte del tetto dello storico Velodromo Vigorelli di via Arona che fu in seguito risistemato, poi cedette completamente il Palazzo dello Sport che era stato costruito nove anni prima accanto allo Stadio di San Siro ma che non si pensò più di ristrutturare. Fatali le 800 tonnellate di neve e acqua precipitata in poche ore, compromesse anche le scuderie del Circo Togni.

Milano era sottosopra, paralizzata, molti i danni agli edifici proprio per il peso della neve come accadeva vent'anni prima, secondo i racconti dei nonni. Le cronache di allora riportano il crollo di un padiglioni adibito a palestra nella scuola del Sole, al parco Trotter. Centinaia le fronde degli alberi divelte e cadute lungo le carreggiate. Sulle strade centrali e di grande percorrenza si vedevano i carri-armati, nelle vie minori erano stati impiegati gli escavatori, mezzi non adatti a spalare le neve, perciò ci si ritrovò nei giorni successivi con i cumuli di neve, ammassi di poltiglia ghiacciata e grigia, ammonticchiati ai bordi. L'incanto era finito. I 90 centimetri di neve caduti si erano trasformati per molti tratti in camminamenti ghiacciati.

Sui social, in questi giorni, molti hanno postato le immagini della nevicata di allora, ne hanno celebrato il

quarantennale come si fa con gli anniversari importanti: «Era una Milano diversa, giravano poche informazioni ma quel che c'era da sapere si sapeva». Oppure: «Ci si aiutava di più l'uno con l'altro». E ci restano le fotografie.

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