L'ultima (e inutile) battaglia contro il Trionfo della morte

Dai versi di Alessandro Manzoni e Dylan Thomas alla "Parabola dei ciechi" di Bruegel il Vecchio

L'ultima (e inutile) battaglia contro il Trionfo della morte
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Il momento della morte è come il punto di cedimento di un sistema che d'improvviso frana, perde energia e si blocca. La vita è lotta, azione, movimento; la morte è stasi, rigidezza, immobilità. Alla fine c'è uno spunto, un tentativo di resistenza. Io ho visto morire mio padre e ho osservato quel momento, in cui le forze della vita si esprimono in sussulti per l'ultima volta.

Ho sempre pensato che nei poeti quel momento sia stato colto con diversa efficacia, come nell'ode per la morte di Napoleone, Il cinque maggio, di Alessandro Manzoni: «Ei fu. Siccome immobile,/ dato il mortal sospiro,/ stette la spoglia immemore/ orba di tanto spiro,/ così percossa, attonita/ la terra al nunzio sta,/ muta pensando all'ultima/ ora dell'uom fatale;/ né sa quando una simile/ orma di piè mortale/ la sua cruenta polvere/ a calpestar verrà».

È qui ben colta quella stasi che ho sopra descritto, quella interruzione di energia.

Ma il poeta che ha meglio descritto quest'ultima lotta, prima che tutto quello che si è mosso per un'intera vita si blocchi, è Dylan Thomas nei versi per la morte del padre: «Non andartene docile in quella buona notte,/ I vecchi dovrebbero bruciare e delirare quando cade il giorno;/ Infuria, infuria, contro il morire della luce./ Benché i saggi sappiano che la tenebra è inevitabile,/ visto che dalle loro azioni non scaturì alcun fulmine,/ Non se ne vanno docili in quella buona notte,/ Gli onesti, con l'ultima onda, gridando quanto fulgide/ le loro deboli gesta danzerebbero in una verde baia,/ S'infuriano, s'infuriano contro il morire della luce./ Gli impulsivi che il sole presero al volo e cantarono,/ imparando troppo tardi d'averne afflitto il percorso,/ Non se ne vanno docili in quella buona notte./ Gli austeri, in punto di morte, accorgendosi con vista cieca/ che gli occhi spenti potevano gioire e brillare come meteore,/ S'infuriano, s'infuriano contro il morire della luce./ E tu, padre mio, là sulla triste altura, ti prego,/ Condannami o benedicimi, ora, con le tue lacrime furiose./ Non andartene docile in quella buona notte./ Infuriati, infuriati contro il morire della luce».

L'intensità espressiva di quella esortazione a «infuriarsi» per un ultimo momento, là, sulla «triste altura», prima del morire della luce, è tra le reazioni di più forte pathos contro l'irresistibile dominio della morte.

Anche nella pittura la morte è spesso intesa come una guerra, nella rappresentazione frequente e minacciosa di un Trionfo della Morte che è un vero e proprio combattimento. Sono molto diffuse, queste vaste composizioni, e fra quelle memorabili ricordiamo certamente quelle del Camposanto di Pisa, di Clusone e di Palazzo Abatellis a Palermo. Nei trionfi è rappresentata eminentemente la morte, come uno scheletro armato di falce che colpisce diverse categorie di persone, sottolineando in particolare come re, papi e gente comune siano uguali dinanzi ad essa, che viene talvolta aiutata da altri scheletri o da demoni.

Ma tra le più eloquenti e traumatiche interpretazioni vi è quella di Pieter Bruegel il Vecchio, conservata al museo di Capodimonte, sotto forma di Parabola dei ciechi. Sbaglia Arnold Hauser quando scrive: «Attraverso quest'opera Pieter Bruegel si propose di dimostrare quanto di equivoco vi sia nell'esistenza umana». In realtà, non c'è nulla di equivoco nella morte, ma tutto di ineluttabile, fino all'ultimo. C'è speranza nei ciechi nell'appoggiarsi l'uno all'altro, ma è una grande illusione, più che un grande equivoco, perché l'abisso ci attende comunque.

L'opera di Bruegel traduce in immagini la parabola evangelica del cieco che guida un altro cieco, riportata in Matteo 15,14, in cui Cristo si rivolge ai Farisei. «Sono ciechi e guide di ciechi. E quando un cieco guida un altro cieco, tutti e due cadranno in un fosso!». Ma non è un equivoco, è la condizione umana, precaria e minacciata da un imprevisto. La morte è sempre un imprevisto, per quanto non vi sia niente di più prevedibile. La forza del dipinto è nel suo dinamismo, come in una rappresentazione cinematografica dove l'accelerazione inevitabile accompagna il precipitare improvviso della situazione: alcuni ciechi in fila perdono l'equilibrio e, come in una ripresa al rallentatore, cadono a terra. La faccia del primo, rovesciato sulla schiena, non è visibile, mentre il secondo gira il capo durante la caduta. Il terzo condivide il bastone con il secondo, dal quale verrà trascinato. L'uomo di sinistra soffre di leucemia corneale, mentre quello di destra di amaurosi.

Al cieco con il copricapo bianco sono stati cavati i globi oculari, probabilmente in seguito a una lite, ma il pittore non sembra mostrare alcuna compassione per i suoi soggetti.

Proprio questa rassegnazione, questa imperturbabilità rendono così potente la rappresentazione di Bruegel. Prima che un monito, un destino cui l'uomo non può sottrarsi.

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