Il 20 marzo del 1945 Hitler, accompagnato dal capo della gioventù hitleriana Artur Axmann, riceve nel giardino della Cancelleria venti militanti - alcuni sono soltanto dei bambini, nemmeno dei ragazzi - da poco decorati per essersi distinti nella resistenza sul fronte orientale. Di quell'episodio esiste una famosa fotografia. Si vede il dittatore, ingobbito e invecchiato, che accarezza un ragazzino impettito. Sembra la carezza della morte, quella che falcerà sotto un inferno di fuoco molti degli ultimi disperati difensori di Berlino.
Quest'immagine, che è diventata quasi iconica della caduta finale del Reich millenario, potrebbe però essere per molti versi ingannevole. Proietta l'idea di una parabola che diventa una feroce picchiata verso il nulla a partire dal 1943 se non dal 1944. Lo storico e giornalista tedesco Volker Ullrich nel suo ponderoso saggio, intitolato appunto La Caduta (1939-1945), uscito in Italia per i tipi di Mondadori (pagg. 758, euro 100), racconta però una storia diversa. Si intuisce già dalla partizione temporale, chiarita a partire dal sottotitolo. Ullrich, che è autore di un altrettanto corposo e denso studio: Hitler, l'ascesa (1889-1939) sull'ascesa del dittatore, individua con chiarezza già un punto di svolta nel 1939. Nella velocissima campagna militare voluta dal Führer che in diciotto giorni aveva piegato la Polonia, lo storico identifica già tutti i germi dell'autodistruzione, di una strategia che non aveva alcuna possibilità di essere vincente. Le scelte di Hitler si caratterizzano da subito per alcune caratteristiche. La prima: ignorare le tempistiche di sviluppo delle forze armate tedesche che erano state delineate dalle gerarchie militari. La Germania nazista scende in campo molto prima di aver ultimato la modernizzazione delle sue forze. La seconda: la scelta di non condividere mai sino in fondo le proprie scelte e anche le informazioni con gli alleati, in primis gli italiani. Per usare le parole di Ullrich: «L'inchiostro con cui era stato firmato poche ore prima il Patto d'acciaio non si era ancora asciugato, e gia Hitler metteva in chiaro che non si sentiva vincolato dall'obbligo concordato di informare e consultare i suoi alleati». Anzi la volontà di Mussolini di trovare soluzioni pacifiche per la questione polacca fu vissuta come una pericolosa ingerenza. Gli italiani se ne resero drasticamente conto solo con il patto Ribbentrop-Molotov di cui gli italiani non erano stati in alcun modo informati. Per citare il diario di Galeazzo Ciano: «Torno a Roma disgustato dei suoi capi, dei loro modi di agire. Ci hanno ingannato e mentito».
Una grande menzogna era stata raccontata anche al popolo tedesco: e questo è il terzo nodo fondamentale dell'inizio delle ostilità. Per sostenere lo sforzo di riarmo e le faraoniche politiche del partito, Hitler già nel 1938 aveva portato la Germania sul limite del collasso economico. Un rischio che era stato per altro ampiamente previsto dal presidente della Reichsbank, Hjalmar Schacht, che anche per questo venne licenziato nel gennaio del 1939. Ecco perché Hitler parlando ai suoi vertici militari, perplessi nei confronti dell'entrata in guerra con la Polonia così presto, finì con l'ammettere: «Non abbiamo niente da perdere, solo da guadagnare. Per via delle nostre limitazioni, la situazione economica è tale che potremmo resistere ancora solo qualche anno... Non abbiamo altra scelta, dobbiamo agire».
Già nel momento del massimo consenso interno e prima ancora di aver fatto muovere i cingoli dei panzer verso la Polonia o di aver fatto decollare il primo Stuka, Hitler aveva già incatenato mani e piedi il suo Paese alla necessità di giocarsi il tutto e per tutto in guerra.
E se il libro di Ullrich è molto attento a delineare questa parabola inevitabile e intrinseca alla politica di Hitler e del suo entourage più stretto, che sin dall'inizio aveva le idee chiarissime sull'entità ferale del conflitto, lo è altrettanto a scardinare il mito della Wehrmacht sostanzialmente innocente rispetto a i crimini nazisti.
Se l'inizio delle ostilità l'attacco alla Polonia fu caratterizzato inizialmente da una grande freddezza della popolazione e uno scetticismo dei militari che pure non rallentava la loro esecuzione degli ordini, ben presto il tutto si mutò in una cieca adesione alla guerra e anche alla soluzione finale. Le linee guida fornite da Hitler, ben attento almeno all'inizio a fingere che la Germania fosse l'aggredita, vennero trasmesse con chiarezza ai militari e subito recepite. «Annientamento della Polonia in primo piano. L'obiettivo è l'eliminazione delle forze attive, non il raggiungimento di una linea specifica». Questa direttiva tattica, pienamente nella logica della guerra moderna, venne però accompagnata nella pianificazione al Berghof del 22 agosto 1939 con spiegazioni precise della natura etnica e feroce del conflitto che intendeva portare avanti: «Chiudere il cuore alla compassione. Agire con ferocia... La ragione è del più forte. Massima durezza». Era quella implacabile germanizzazione di cui i suoi generali sentivano parlare sin dal 1933. Questa volontà di sterminio etnico di cui nessuno in Germania poteva non essersi accorto diventa il cuore del capitolo intitolato «Verso l'olocausto» che non lascia spazio a dubbi sul peso delle responsabilità collettive. Collettiva anche l'altra atroce barbarie praticata dal regime: l'eugenetica, che ebbe con l'inizio della guerra una brusca accelerazione. Nacque così sotto l'anodino nome di «Comitato del Reich per la registrazione scientifica delle gravi patologie ereditarie e congenite» una vera e propria commissione della morte. Solo un esempio della velocità con cui si estese l'orrore: tra il settembre 1939 e la primavera del 1940, nei soli territori della Prussia occidentale e bel Wartheland, oltre 10mila pazienti psichiatrici vennero assassinati.
In questo crescendo di orrore e di autodistruzione dell'umanità all'interno della Germania la guerra si mutò rapidamente da gloriosa vittoria lampo in guerra di logoramento prima e in disperata resistenza verso un nemico sempre più preponderante poi. Sono quei capitoli che più si avvicinano alla vulgata sulla wagneriana e delirante strada di distruzione e di morte che porta sino al bunker della cancelleria dove Hitler si tolse la vita il 30 aprile 1945. Una strada che il dittatore percorse senza alcun segno - almeno esteriore - di dubbio o di crisi di coscienza. Ancora il 27 aprile del 1945 recriminando sulla situazione militare attribuiva la sconfitta al non essere stati capaci di far tabula rasa dei nemici interni ed esterni abbastanza in fretta: «Ci si pente dopo di essere stati così buoni». Ed è solo dopo la sua morte che molti tedeschi hanno aperto gli occhi oppure hanno scelto di lavarsi la coscienza disponendo di un colpevole.
Come constatò lo scrittore tedesco Victor Klemperer: «Ora tutti, qui, sono stati sempre nemici de partito. Ma se lo fossero stati davvero sempre...». E quella bugia ormai può essere decostruita con onestà. E Ullrich lo fa.
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