Secondo lo studioso palestinese Edward Said, gli scrittori, quando invecchiano, si dividono in due categorie: quelli che diventano sempre più olimpici, come Goethe; e quelli che imboccano vie di fuga rivoluzionarie, per esempio James Joyce, che assieme ad Oscar Wilde, Samuel Beckett e Yates è uno dei Quattro dublinesi (Odoya, pagg. 224, 15 euro, traduzione di Massimo Bacigalupo) al centro dell'attenzione di Richard Ellmann (1918-1987), professore oxoniense di origini americane e celebre biografo. Wilde, che giocò a lungo con l'idea di un ritorno nel seno di santa romana Chiesa, si dichiarava protestante irlandese e Beckett crebbe in un ambiente anglicano, ma non ci si allontanerebbe troppo dalla verità se si osservasse che ciò che accomuna il ragguardevole quartetto non è il luogo di nascita; con l'eccezione di Yates, per tutti la seconda, terza o ennesima patria fu importante quanto la prima. Comune, a giudicare dalle pagine di Ellmann, è piuttosto il gravitare problematicamente nei pressi dell'interazione fra lo spirito e la carne: snodo cattolico, tipico di una confessione religiosa che promette non solo l'eternità dell'anima, ma la resurrezione dei corpi. Guidato da questa ipotesi, l'autore non si limita a spiare i quattro grandi dal buco della serratura, ma mostra che ciò che combinano in camera da letto influisce sulla scrittura.
La catabasi della Ballata del carcere di Reading, per esempio, mostra che Wilde scese all'inferno con tutto il corpo, come il don Giovanni mozartiano ed è un peccato che Ellmann, a differenza di Gide, non getti uno sguardo al di là del periodo della detenzione; se lo avesse fatto, avrebbe scoperto un terzo Wilde, cupo e tragico, dopo l'uomo che si divertiva a scandalizzare («Devo studiare i venti comandamenti?» chiese al suo insegnante di religione) e quello che si divertiva a smettere, di botto, di farlo, come accadde quando giunse nel porto di New York vestito come gli altri passeggeri, fra la delusione dei fotografi. Quanto a Joyce, si sfuma l'immagine invalsa del disinvolto frequentatore di lupanari triestini: a Zurigo l'autore dell'Ulisse cercò di sedurre con una cautela del tutto fuori luogo una mezza sgualdrina, rischiando nondimeno che il protettore della donna, dal nome sinistro di Hiltpold, gli facesse un occhio blu; si salvò assicurando che la sua infatuazione era ineccepibile, perché casta.
Per tacere del dramma Esuli, il cui carburante era la gelosia suscitata dal fatto che la moglie, prima di sposarlo, avrebbe intrattenuto una relazione con un altro uomo. Purtroppo, dopo tanti anni, la gelosia faticava a ripresentarsi, compromettendo l'ispirazione; come risolvere lo stallo creativo, se non pregando la moglie di mettergli le corna?
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