Lussuria, gelosia e vendetta secondo Scerbanenco

Per gentile concessione dell'editore, pubblichiamo un brano del racconto di Giorgio Scerbanenco "Lussuria".

«Raccontate come accadde.»

Lei raccontò. Descrisse il caffè dove era andata a bere l'aperitivo, la macchina per distribuire i gelati, fuori della porta, un aggeggio un po' volgare per un locale frequentato così bene, era molto caldo, vicino a ferragosto, il locale era vuoto, sulla porta una ragazzina, diciassette anni, vicino alla macchina dei gelati, in divisa blu con colletto bianco che però guardava nell'interno, verso il barista, che era il suo fidanzato, un giovanotto di ventidue anni che aveva studiato alla scuola alberghiera di Stresa e aveva già trovato un Madame no, un forte cocktail per signora, creato per le bevitrici.

Nel caffè non c'era nessuno, escluso lei, la contessa Paola Horquet, turlupinata per quasi due anni di fidanzamento con Gianfederico, oltraggiata ogni giorno da lui, abbandonata per la carnosa straniera, adagiata su un letto di miliardi, che passava il ferragosto a Milano per non portare in giro la sua faccia di turlupinata, e che pensava, una forma maniacale, continuamente, ti trascinerò nella polvere, dal giorno in cui lui, sguaiatamente, ridendo, dicendo che le aveva fatto il bidone, le aveva rivelato che si fidanzava con quell'altra, ti trascinerò nella polvere: e c'era anche la vecchia cassiera, che però ogni tanto andava nel retro e da lì in cortile, dove c'era più fresco, e così non c'era quando arrivò Gianfederico in auto e fermò, e sporse la testa dal finestrino. «Ehi,» aveva detto al barista, al creatore di Madame no, me la presti un momento la tua ragazza?»

Il barista, disse la contessa Paola Horquet, lo conosceva bene e gli sorrise impacciato. Allora Gianfederico era sceso dall'auto, aveva preso per un braccio la ragazzina.

«Ti riporto indietro subito,» le aveva detto.

«La ragazza oppose resistenza?» domandò il giudice.

«Un poco sì,» lei disse. In realtà l'aveva vista divincolarsi con tutte le sue forze, ma dire «un poco» non era mentire e irritava sempre di più chi l'ascoltava, quello che lei voleva, ti trascinerò nella polvere.

«Che cosa intendete per un poco?» disse il pubblico ministero furioso.

«Cercò di non salire sull'auto,» disse lei, gli occhi violetti fissi su di lui, «ma poi forse pensò che Gianfederico aveva bisogno di lei per una commissione, un qualche cosa, perché salì, finì per salire sull'auto.»

«Spiegate bene,» disse il giudice, «perché è importante: salì forzata dall'imputato, o di sua volontà?» Nel primo caso era ratto, nel secondo niente. Lei rispose precisamente: «Direi metà e metà. Forse lei pensò a uno scherzo, non so.»

Nel silenzio lei sentì di essere odiata e compatita. Tutti tacevano, la odiavano e la compativano, non si doveva difendere fino a quel punto un mascalzone.

«E quando l'imputato fu andato via con la ragazza, il barista, suo fidanzato, che cosa fece?» chiese il giudice.

Ti trascinerò nella polvere. Col viso in giù nella polvere, non sposerai nessuna figlia di ambasciatore carnosa e straniera, non ti avvicinerà più nessuno, dovrai farti dimenticare e non ci riuscirai. «Il barista uscì per la strada,» disse lei. «E anch'io con lui. Ma l'auto era già lontana. Mi disse che non erano scherzi da fare, che quando il marchese fosse tornato indietro gliel'avrebbe fatto vedere.»

«E lei cosa disse al barista?»

«Gli dissi che aveva ragione, ma cercai di calmarlo.» Menzogna completa. L'occasione era giunta e lei non l'aveva perduta. Aveva aizzato il barista, gli aveva promesso tutto il suo appoggio, e poi glielo aveva dato; quando la ragazza, la sua ragazza, era tornata ubriaca e piangente a casa, verso mezzanotte, rideva e piangeva e stava male di stomaco e raccontava che era stata a cena in un bel posto in campagna e che aveva ballato, e piangeva, vomitava e rideva. E lo aveva aiutato, il barista, l'arma della sua vendetta, perché lui, senza una lira, senza conoscenze, non avrebbe potuto fare molto, gli aveva dato gli avvocati implacabili che avevano parlato di ratto, di violenza, denunciato Gianfederico, montato lo scandalo. Ed era andata a scovare, una per una, tutte le menzogne di Gianfederico che lei conosceva così bene, perché ne aveva sofferto così bene. La cassiera del Colorado bar: «Mostra l'assegno da centomila che lui ti ha dato per corromperti, il tribunale te lo sequestrerà, ma io ti do il triplo.» Aveva ritirato fuori la storia della figlia della cuoca, aveva ripescato la professoressa di matematica, la guardarobiera in bikini, tutte, e le aveva spinte, inferocite, pagate, contro di lui, consegnandole agli avvocati di parte civile come testimoni.

Lei no, lei era comparsa per difenderlo, e lo aveva anche difeso, così lo aveva trascinato ancora più nella polvere: difendendolo, più lo difendeva, e più lui era lì, col suo bel muso, irresistibile muso maschio, nella polvere, rivoltolato, sbattuto nella polvere e non lo sapeva neppure che era stata lei, nessuno lo sapeva.

«Insistete dunque nel dire che non vi fu violenza?» chiese il giudice. «Che la ragazza salì sull'auto di sua spontanea volontà, o per lo meno era indecisa e lui la trascinò?»

«Quello che io ho visto è così,» lei disse e continuò, una specie di colpo di grazia all'uomo nella polvere, sempre difendendolo: «Una volta spinsero anche me in un'auto, per fare un giro, senza che ne avessi troppa voglia, ma non ho pensato di essere stata rapita. Non credo che Gianfederico avesse bisogno di rapire una venditrice di gelati, di solito le donne gli corrono appresso, e qui sono apparse solo quelle di un genere particolare che tutti i giovanotti, a volte, frequentano. Le altre, quelle del nostro ambiente, naturalmente non sono venute qui, per molte ragioni, ma anche perché non hanno nulla da dire contro Gianfederico.» Menzogna completa anche questa, nessuna gli correva più appresso, era come correre appresso alla peste. Ora potevano anche assolverlo, lei pensò, lo aveva trascinato nella polvere per sempre, assolto, ma col viso nella polvere.

«Potete andare,» disse il giudice.

Si alzò, aristocratica, napoleonide, quando passò davanti a lui si volse e gli sorrise lievemente, all'uomo che da due mesi aveva fatto dimenticare lo scandalo numero uno, per rincuorarlo. Ti assolveranno, insufficienza di prove, non hai rapito nessuno, la ragazza è venuta di sua volontà, o quasi, è stata solo una piccola mascalzonata. Fuori del tribunale, nella sua auto scoperta, nera, si volse a guardare l'edicola dei giornali, il settimanale a colori con la fotografia della bionda sparo per prima che agitava l'assegno da centomila lire.

Ti trascinerò nella polvere. Ecco, la ragazza della copertina, la prima che aveva parlato, una delle tante, tantissime donne con cui lui era stato, ferendola ogni volta, senza neppure accorgersene, nella sua cieca lussuria, e lei ogni volta lo aspettava, il «fidanzato», aspettava che tornasse da quei sordidi incontri, mai sazio, mai saziato, sempre avido e volgare, sempre più, incurante (ma lo era sempre stato) di quello che lei provava e soffriva. Ecco, ti trascinerò nella polvere, aveva mantenuto quella promessa, abbandonata da lui, definitivamente, irrisa da lui, si era vendicata di quel suo vizio umiliante. Avviò l'auto, si accorse di tremare un poco nel tenere il volante e guidò pianissimo, e si accorse anche che aveva voglia di piangere, perché lo aveva trascinato nella polvere, rivoltolato e sbattuto nella polvere, ed era proprio questo che aveva voluto, ma lo amava sempre lo stesso.

© 2021 La nave di Teseo editore

© 1974-1996, Cecilia e Germana Scerbanenco

Pubblicato in accordo con PNLA

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