Palermo - "Mio padre disse ai carabinieri di agganciare Luciano Violante perché secondo lui non si sarebbe potuto intervenire sui suoi processi senza il consenso dell’onorevole". Così ha detto Massimo Ciancimino, figlio dell’ex sindaco di Palermo Vito, nel corso del processo al generale Mario Mori ed al generale Mauro Obinu, per favoreggiamento aggravato a Cosa nostra, per la mancata cattura del super boss di mafia Bernardo Provenzano: "In cambio del suo contributo per la cattura di Riina, Provenzano ottenne una sorta di impunità. Mio padre spiegò ai carabinieri che l’unica persona che poteva imprimere una rotta nuova alla strategia di Cosa nostra e far cessare le stragi era Provenzano e per questo doveva rimanere libero".
Le garanzie da Violante Rispondendo alle domande del pm Antonino Di Matteo, Ciancimino jr ha iniziato stamane la seconda giornata di udienza davanti ai giudici della quarta sezione penale. In particolare il magistrato si sta soffermando, in queste prime battute, sullo stato della trattativa tra Stato e mafia, dopo la strage di via D’Amelio in cui perse la vita il giudice Paolo Borsellino e gli uomini della sua scorta. L’ex sindaco Don Vito, dopo i fatti del luglio ’92, viene sollecitato dai carabinieri. "Subito Provenzano viene informato che da quel momento in poi deve fare il ruolo chiave per giungere al fine, che è quello di catturare Totò Riina - ha detto Ciancimino jr - 'Non puoi tirarti indietro, spiegava mio padre, hai creato tu questo soggetto, assumitene le responsabilità e metti fine alla latitanza di Riina'".
Le accuse a Dell'Utri Nel frattempo sarebbe cambiata la contropartita. "Si abbandona il 'papello', mio padre aveva percepito l’impraticabilità della trattativa. Si torna all’impianto iniziale. Le mire di mio padre non erano i 12 punti del papello ma si riferivano ai possibili benefici sui processi in corso - continua Ciancimino jr -. Voleva chiaramente che l’interlocutore informato fosse il Violante, unico soggetto che secondo lui avesse pieno potere su quello che era il mondo della magistratura, unico elemento di garanzia, in grado di condizionare decisioni dei magistrati, era solo Luciano Violante". "Dopo il suo arresto, a dicembre del ’92, mio padre si convinse che i carabinieri l’avevano tradito e che avevano un nuovo interlocutore, probabilmente con l’avallo di Provenzano - ha continuato Ciancimino - anni dopo mi rivelò che, secondo lui, il nuovo referente istituzionale sia della mafia sia dei soggetti che avevano condotto la trattativa fosse Marcello Dell’Utri".
Dell'Utri-Provenzano "Dell’Utri e Provenzano avevano rapporti diretti. Me lo riferì mio padre a cui era stato detto dal capomafia". Lo ha detto Ciancimino in aula. L’argomento è venuto fuori quando Ciancimino ha illustrato ai giudici il contenuto di un pizzino che Provenzano aveva scritto al padre. Nel bigliettino, che il teste ha consegnato in procura, il boss scriveva di avere parlato "al nostro amico senatore" di un provvedimento di amnistia che era stato caldeggiato da Ciancimino. "Mio padre - ha spiegato Ciancimino - disse che il senatore era Dell’Utri e che, anche se all’epoca il politico era solo un deputato, Provenzano era solito chiamare tutti senatori".
La strage di via D'Amelio Della strage di via D’Amelio, Ciancimino jr ha un ricordo chiaro: "Era domenica, eravamo a Roma. Mio padre mi chiamò, mi fece vedere la notizia, il primo commento fu amaro, triste, disse che si sentiva anche se indirettamente responsabile di quella che era l’ennesima strage. Dettato dal fatto che il tentativo di aprire questo dialogo con Riina da parte delle istituzioni aveva innescatato un valore aggiunto a quella che era l’azione stragista di Cosa nostra, 'Se questo è capitato è anche colpa nostra'. 'Mi sento in colpa anch’io per quello che è successo', disse. Se Borsellino fosse venuto a sapere di questo tentativo, di questo tentativo di dialogo, non era una persona disposta ad avvallare questo percorso. Rimarcava di sentirsi responsabile per aver dato un’accelerazione".
I legali di Dell'Utri "Massimo Ciancimino prova a fare ciò che non è riuscito a fare suo padre: cioè accreditarsi alla procura di Palermo, vendendo un prodotto che non ha, per potere preservare in modo concreto il patrimonio, sicuramente ingente, che detiene all’estero". Così l’avvocato Giuseppe Di Peri, legale del senatore Dell’Utri ha replicato alle dichiarazioni fatte, al processo Mori, da Ciancimino, figlio dell’ex sindaco di Palermo, Vito.
Carte depositate I difensori di Dell’Utri, Giuseppe Di Peri e Pietro Federico, hanno depositato, questa mattina, agli atti del processo d’appello al politico per calunnia aggravata, un’intercettazione di una conversazione fra due pentiti napoletani: Giuseppe Pagano e Carmine Schiavone. Contestualmente i legali hanno chiesto l’esame dei due collaboratori. La corte d’appello di Palermo si è riservata e deciderà l’8 marzo. Nella telefonata, Schiavone racconta a Pagano che funzionari del servizio di protezione dei collaboratori di giustizia avevano cercato di convincerlo ad accusare Berlusconi. A questo punto Pagano avrebbe consigliato all’altro pentito di fare come gli avevano detto, ma Schiavone si sarebbe rifiutato sostenendo che lui Berlusconi non lo conosceva. Oggetto del processo in corso in appello, a Palermo, è il piano, ordito, secondo l’accusa, da Dell’Utri per screditare i pentiti palermitani Francesco Di Carlo, Francesco Onorato e Giuseppe Guglielmini che l’avevano accusato nel dibattimento in cui era imputato di concorso in associazione mafiosa.
Per lo scopo l’ex manager Fininvest si sarebbe servito di Cosimo Cirfeta, che assieme a lui fu rinviato a giudizio per calunnia e che nel frattempo è deceduto, e che aveva sostenuto di avere saputo di un complotto dei tre collaboratori contro il senatore. L’intercettazione depositata oggi è stata già acquisita agli atti di un altro procedimento penale poi archiviato perchè Schiavone si è avvalso della facoltà di non rispondere e non ha confermato la vicenda.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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