"Aizzare la popolazione contro la magistratura perché ha adottato dei provvedimenti sgraditi avrebbe conseguenze sulla tenuta stessa della democrazia, temo". Dietro le parole pronunciate a La Stampa dal giudice, Silvia Albano, presidente di Magistratura democratica e tra i primi magistrati a non convalidare il trattenimento dei migranti in Albania, c’è tutto lo scontro in atto tra Parlamento e toghe.
Dopo l’ennesima bocciatura del protocollo in Albania da parte dei giudici delle Corti d’appello, provenienti dalle stesse sezioni Immigrazione che il governo aveva estromesso, è chiaro che siamo davanti a un braccio di ferro. La scelta di bypassare un provvedimento del governo con un gioco delle tre corte (rimettendo dalla finestra i giudici che il governo ha fatto andare via dalla porta) non aiuta a pensare che una parte della magistratura più ideologica, ipersensibile ai temi dell’immigrazione per motivi nobili, non si muova più in un ottica «politica» che squisitamente giurisprudenziale.
In parole povere, ci sta che dei giudici considerano il diritto d’asilo impermeabile alle sterzate che il Parlamento - sulla base di una volontà popolare - ha deciso di imprimere, c’è una consolidata giurisprudenza pro migranti che rende quasi impossibile i rimpatri, accelerati o meno. Ma qui c’è in gioco la supremazia di un potere su un altro. E lo si capisce da una battuta di Albano che appare innocua ma innocua non è: «Sarebbe politicizzata la magistratura che rispondesse ai desiderata della maggioranza di turno». Come dire che la volontà politica di limitare le attuali politiche migratorie non abbia cittadinanza nelle aule di tribunale e che «obbedire» all’applicazione di nuove norme sia un atto contrario ai doveri della magistratura, e poco importa se si emettono «dei provvedimenti che il governo non gradisce», per la serie comandiamo noi.
Quanto alla minaccia di una manifestazione contro i magistrati - paventata più da qualche giornale di centrosinistra che da esponenti di governo - siamo al paradosso. La magistratura può scendere in campo contro leggi del Parlamento che loro non vogliono assecondare, calpestando la stessa Costituzione che le toghe dicono di voler preservare e che invece più volte è stata fatta a brandelli nelle aule giudiziarie (la malagiustizia ci costa un miliardo l’anno), il Parlamento non può costringere le toghe ad adottare norme scelte dal potere legislativo, né può «fare manifestazioni di piazza contro la magistratura, sarebbe una cosa veramente molto grave».
La pace bisogna volerla in due, il Parlamento ha il diritto di fare le riforme per cui è stato eletto, la separazione delle carriere non sarà la migliore delle soluzioni possibili, ma qui siamo di fronte a un contropotere dello Stato che rivendica il suo primato a una magistratura che si è autocostruita una forma di «supplenza» e di autorità morale sulla politica, iniziata con Mani pulite ed esplosa con Silvio Berlusconi. La storia recente degli ex eroi di Tangentopoli pizzicati con le mani nella marmellata, la vicenda di Luca Palamara, i troppi processi «politici» nati morti solo per uccidere il leader scomodo, ci restituiscono un quadro desolante, in cui la sedicente moralità della magistratura ha lasciato il posto a faide cannibali tra correnti per poltrone e strapuntini. Il bluff della magistratura, andata all-in contro la politica, si è ormai disvelato.
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