A Magris giova allontanarsi dalla Mitteleuropa

L’autore abbandona la retorica della decadenza e diventa uno straordinario narratore di luoghi e persone

L’introduzione, in 28 pagine, allinea una quantità impressionante di platitudes sul tema del viaggio, ma è meglio non gettare subito la spugna. Ripariamoci dunque dalla sassaiola di citazioni, non badiamo al numero preoccupante di occorrenze della parola «epifania» né alla conclusione sensazionale secondo cui «l'avventura più rischiosa, difficile e seducente si svolge a casa».
Fingiamo di non aver letto che «chi viaggia è sempre un randagio, uno straniero, un ospite», o che «l’Io delle pagine che seguono cammina talora, anzi spesso, sull’orlo di questa dissoluzione»: il vecchio apologo della passeggiata sull’abisso come metafora dell’Occidente e di tutti i suoi membri speravamo proprio di non incontrarlo più. Chiudiamo poi un occhio di fronte alla propensione a parlare dei libri precedenti («Itaca e oltre, come dice il titolo di un libro che ho scritto») e mobilitiamo tutto il self-control disponibile quando ci coglie il sospetto di un compiacimento un po’ ridicolo, fuori misura: «Quando viaggiavo nei vasti paesi danubiani o nei periferici microcosmi, avviandomi in una certa direzione, sempre disponibile a digressioni...». Il Magris saggista è illeggibile sia quando si abbandona ad un poeticismo tanto facile, sia quando indulge nella stanca riproposizione di luoghi comuni novecenteschi (la crisi del soggetto, il senso di spaesamento, il tramonto delle ideologie...). Il Magris che preferiamo è, al contrario, uno scrittore sobrio, «civile», equilibrato nell’amalgamare la storia degli individui con la Storia; che sa cogliere lo spirito non tanto del tempo, ma dei luoghi concreti, delle persone, delle nazioni.
Avrete intuito che, a parte l’introduzione, L'infinito viaggiare (Mondadori, pagg. 245, euro 17) è un libro intenso che merita di essere messo accanto ad altri famosi reportages di scrittori italiani. Abbandonata la retorica della decadenza e del crepuscolo, l’autore si limita ad essere un sensibile, colto e intelligente narratore di luoghi, di spostamenti, di incontri con figure notevoli. Gli giova, allontanarsi dalla sua Mitteleuropa: non a caso tra le terre meglio descritte vi è la Cina, e tra quelle analizzate con maggiore lucidità l’Iran. I luoghi caldi, ma anche i macrocosmi gli rendono giustizia: la Mancia di Cervantes, per esempio, o un edificio di Madrid chiamato Mentidero de representantes, Mentitoio di rappresentanti, dove gli intellettuali dell’800 si riunivano per discutere.
La pagina in cui un padre accompagna in una pinacoteca di Barcellona il figlio affetto dalla sindrome di Down è forse la più bella; di fronte ad un capolavoro l’uomo «rivolgendosi al figlio gli dice, in un tono di voce un po’ alto, “Velázquez!” e si toglie il cappello, alzandolo il più possibile. La croce che, con la minorazione del figlio, gli è stata gettata addosso da un’ingiustizia imperdonabile non ha curvato le sue spalle, non gli ha tolto la gioia di riconoscere la grandezza».
È invece il capitolo londinese il più leggero e gustoso: «Uno dei miei figli aveva interpretato la cosa come un desiderio faustiano di ringiovanire, mentre l’altro vi aveva scorto piuttosto un oscuro desiderio di umiliazione, di ricevere bacchettate o almeno ramanzine per qualche errore di sintassi o difetto di pronuncia».

L’accademico ed eterno studente (der ewige Student, dicono i tedeschi) aveva deciso di tornare sui banchi di scuola per un corso di inglese. «I segni rossi, sul quaderno che mi viene restituito il lunedì mattina, sono pochi e il giudizio complessivo, in fondo alla pagina, è un lusinghiero “buono”».

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